venerdì 21 aprile 2017

2t-7-San Tommaso d'Aquino (2)

Le Slides e la Dispensa

















































LA FILOSOFIA MORALE

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L'importanza del pensiero di Tommaso nella tradizione cattolica e nella storia della filosofia si fonda sulla sistemazione, da lui operata, di un intero patrimonio culturale. Servendosi del pensiero di Aristotele, adeguatamente cristianizzato dall'interno, Tommaso poté fornire un ordine di risposte chiare e definitorie alla filosofia. Uno dei suoi intenti primari (e ciò aveva già precedenti nella scolastica) era l'accordo tra teologia e filosofia, rivelazione e ragione. Mediante lo spirito stesso dell'aristotelismo Tommaso volle fornire agli interrogativi primi dell'uomo risposte che sul piano della ragione naturale si accordassero con i dati della rivelazione. Contro ogni spiritualismo platonico e mistico che poteva portare a confondere i due piani distinguendo la teologia, come riflessione sul discorso fatto da Dio all'uomo, dalla filosofia, come sforzo umano di conoscere la verità, fissò in definizioni le risposte che la ragione umana con le sue forze poteva, secondo lui, attingere. Per Tommaso infatti la filosofia non può oltrepassare il campo naturale. Al di là delle verità che la filosofia può dimostrare (per esempio che Dio esiste, che è uno, eterno ecc.), ci sono verità che si possono credere per fede e mai dimostrare, sebbene si possa dimostrare la loro non contraddittorietà intrinseca: per esempio che il mondo non sia eterno, che Dio sia uno e trino ecc. La filosofia è ancilla theologiae. Lo spirito stesso dell'aristotelismo è in Tommaso: anzitutto assegna alla filosofia un compito scientifico, dimostrativo; quindi opera secondo distinzioni e categorie logiche, dove tutto è determinato in base al principio di contraddizione  e nessuno spazio è lasciato a un'esperienza immediata e naturale della natura divina. Come è chiaro, proprio l'aristotelismo, prima che una filosofia, è per Tommaso la possibilità di sistemare una volta per tutte razionalmente le cose che vanno considerate vere in accordo con la teologia cattolica.

L’incontro fra Fede e Ragione

Riprendiamo l’opera maggiore di San Tommaso: la Summa Theologiae. La scrisse riferendosi alla Bibbia e ai Dogmi della Chiesa cattolica, ma importante fu anche il riferimento alla filosofia di Aristotele e alla teologia di Sant’Agostino.
Scritta in latino la Summa tratta tutti i temi con la struttura delle questiones. Ogni tema prevede una serie di domande a cui, con metodo analitico, si giunge ad una risposta soddisfacente per la questione iniziale. Nell’opera sono presenti un totale di 512 domande che toccano ogni campo della cultura cristiana, dalla creazione alla trinità, dal male all’uomo e il cosmo, dal peccato alla grazia e il merito, da Cristo ai Sacramenti.
È il trattato più famoso della teologia medioevale ed è centrato principalmente sul rapporto FEDE RAGIONE. L’insieme delle dottrine filosofiche e teologiche elaborate dal Doctor Angelicus e riprese dai suoi seguaci prenderanno il nome di “tomismo”. Grandissima fu l’influenza che ebbero nel cattolicesimo ma anche nel pensiero filosofico.
Il pensiero di san Tommaso d’Aquino abbiamo visto è incentrato sul rapporto Fede e Ragione e quindi c’è in esso Filosofia e Teologia. In questo studio di Tommaso, ci interessa in particolar modo l’aspetto filosofico, cioè l’indagine razionale dei tre grandi temi della Filosofia: Dio, l’Uomo e il mondo.
Tommaso parte dal mondo, il più vicino alla nostra comprensione, poi all’interno del mondo l’Uomo e infine, per capire il mondo e l’Uomo: Dio.
La sua filosofia è una certa visione dell’Uomo e del mondo, alla luce di una certa visione di Dio.

Il fine dell’Uomo

La visione dell’Uomo la si capisce dalla dottrina morale di un filosofo. Ma cos’è la morale? È lo studio delle azioni dell’Uomo, dice Tommaso. A loro volta le azioni dipendono dal fine. La morale di Tommaso parte dal discorso del fine. Cioè se partiamo dal fine, cioè da dove vogliamo arrivare, allora il comportamento dell’Uomo potrà essere giudicato valido per raggiungere quel fine o non valido per raggiungerlo, ma senza la conoscenza del fine è impossibile giudicare un comportamento.
Le azioni sono sempre in ordine o in vista di un punto di arrivo, Tommaso quindi ci dice di partire da qui, dal punto di arrivo cioè dal fine dell’Uomo. Ma qual è il fine dell’Uomo? La FELICITÀ afferma con decisione Tommaso.
Il fine dell’uomo è essere felici. Questa scoperta che ha sollevato gli animi per secoli e oggi, dopo 800 anni, è completamente abbandonata e ne paghiamo le conseguenze. Oggi caso mai si parla di benessere, ma di felicità proprio no, lo sentiamo troppo impegnativo e utopico.
La felicità è il fine della vita dell’Uomo. È PREDELIBERATIVO, cioè è precedente ad ogni decisione. Cioè l’Uomo desidera essere felice, ma questo non è frutto di una scelta, ma è qualcosa che sta prima, a seguito del quale scegliamo cosa fare, cosa possedere, cosa pensare per raggiungere questo obiettivo, la propria felicità.

La Felicità

Qualunque cosa uno cerca, la cerca in quanto vede in quella cosa un aspetto di bene, almeno un aspetto. Nessuno cerca il male in quanto male, perfino chi giunge all’estremo atto malvagio che l’uomo può fare, cioè togliersi la vita, lo fa perché vede nella morte un aspetto di bene. Il male di per se nessuno lo sceglie. Il suicida vede nella morte una liberazione, un sollievo, un aspetto di bene che gli fa credere che valga la pena di agire in quel modo.
La Felicità come fine dell’Uomo è una esigenza universale. Nessuno può decidere un’altra cosa come fine della propria vita. Questo vale per tutti gli uomini, di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Ma la ricerca della Felicità come fine della vita dell’Uomo è FALLIBILE, cioè si può desiderare la felicità e non raggiungerla mai.
Perché questo? Perché bisogna vedere dove la si cerca, dice Tommaso. Dove l’Uomo cerca la Felicità?
La cerca nei beni materiali? Cioè nel possedere denaro e cose? I beni materiali permettono all’Uomo una certa agiatezza di vita, dunque sono un valore, ma vengono cercati in vista di qualcos’altro, non per se stessi e quindi non possono essere un fine, cioè la cosa ultima. Il danaro serve per avere altre cose, quindi sono un mezzo, non un fine. Tommaso osserva che il danaro e i beni sono più un’occasione di inquietudine più che di appagamento. Va notato che Tommaso non condanna la ricchezza, ma mette in guarda da un suo uso fine a se stesso, perché questo non porta alla Felicità.
Il Budda infatti diceva che il danaro ti rende inquieto quando non lo possiedi, ti rende inquieto quando lo possiedi perché hai paura di perderlo, ti rende inquieto quando non lo hai più perché lo vuoi avere di nuovo. Quindi la Felicità non può essere nel denaro e nei beni materiali che comperi con il danaro. Il denaro è quindi un mezzo e non può essere un fine e quindi non può essere la Felicità.
La felicità può essere nei beni del corpo? Cioè nella bellezza, nella salute, nella forza, nella prestanza fisica? No dice Tommaso perché non tutti possiedono questi beni e già questo esclude che possano essere dei fini, perché dovrebbero essere accessibili da tutti e non solo ad una categoria. Oltretutto questi beni comunque ad un certo punto sfioriscono, degradano. Ma anche se volessimo prendere in considerazione la salute, come fine, vediamo che nella realtà noi siamo disposti a sacrificarla, cioè a sacrificare la nostra vita per un’idea o una persona che rappresentano per noi un bene superiore. Vuol dire cioè che esiste qualcosa di più grande della salute e quindi questa non può essere la felicità dell’Uomo.
Può essere la Felicità nei beni spirituali esterni? Cioè nell’onore, nella fama, nel prestigio. Effettivamente sono un valore queste cose e oggi diremmo che portano al successo. Ma può essere questa la Felicità, il fine dell’Uomo? No, perché anche questo è fatto in vista di altro, cioè del bisogno di essere amati, considerati, riconosciuti, non annegati nella massa.  È quindi una cosa esterna all’Uomo, è qualcosa di volubile e temporaneo, con soddisfazioni che possono durare anche un solo momento, inoltre dipende dagli altri e può essere anche un’apparenza che nasconde vizi e cose ignobili. In realtà è più nobile colui che attribuisce l’onore. L’onore risiede più in colui che onora piuttosto che nell’onorato (Aristotele).
La Felicità può essere nei beni spirituali interiori? Quali sono i beni spirituali interiori? Sono le azioni dell’Uomo nelle sue dimensioni spirituali: l’intelletto e l’affettività, quindi il Pensiero e l’Amore (la Cultura e le Relazioni interpersonali).
Si perché ciò che perfeziona l’Uomo, cioè ciò che lo rende felice, ciò che gli permette di raggiunge il suo fine, deve risiedere nelle qualità che l’Uomo ha come specifico suo, cioè la sua capacità di Pensare e di Amare. Bisogna vedere però qual è l’oggetto su cui si portano il suo pensiero e il suo affetto.
Quale deve essere questo oggetto?
La Felicità esige tre cose e da queste tre cose si capisce qual è l’oggetto proporzionato, cioè adeguato, ad essere il fine dell’Uomo.
1.   TOTALITÀ. Perché quando noi pensiamo ed amiamo qualche cosa, vogliamo che questo pensiero la racchiuda tutta e la possieda tutta. Al contempo vogliamo da lei essere conosciuti totalmente. Quando noi amiamo vogliamo possedere totalmente l’oggetto del nostro amore ed anche per essere da lui amati totalmente. Quale creatura può essere posseduta e amata totalmente e al contempo conoscermi ed amarmi totalmente?
2.   COMPLETEZZA. Noi desideriamo che questa conoscenza, questo amore, con l’oggetto di questa conoscenza e di questo amore (in andata come in ritorno), desideriamo sia sempre e per sempre.
3.   DEFINITIVITÀ. Conoscere ed amare l’oggetto della mia conoscenza e del mio amore non solo durante questa vita, ma per sempre.
Quale di queste tre cose si realizza con una creatura umana? Solo in modo parziale noi conosciamo ed amiamo, noi siamo conosciuti e siamo amati in questa vita. Dunque l’oggetto proprio della conoscenza e dell’amore, di quella conoscenza e di quell’amore che sono i fini dell’Uomo, che sono la felicità dell’Uomo, deve essere per forza qualcosa che non si può perdere mai, che ci conosce e ci ama per ciò che veramente siamo e che noi possiamo conoscere e amare totalmente e per sempre: Dio.
Nessuna creatura realizza perfettamente l’esigenza di conoscere e amare per essere felici in questo mondo. Dobbiamo raggiungere Dio con la Fede in questa vita e nella gloria nell’aldilà per poter conoscere e amare, essere conosciuti ed amati, essere quindi veramente felici.

La legge come via per la Felicità

Tommaso concepisce la legge, non come un sistema coercitivo e liberticida, ma come i binari all’interno dei quali far correre il treno che ci porta sicuramente alla felicità evitando errori e deragliamenti. La legge è riflesso o espressione della legge eterna, cioè del progetto creatore di Dio.
Ricordiamo che la Scolastica in genere e la Tomistica in particolare sono il formidabile incontro fra Fede e Ragione. Solo alla luce di questo si può capire la portata del discorso sulla legge eterna. Noi abbiamo la fortuna di vivere in una cultura radicata nella tradizione, nella filosofia e teologia cristiana, come Benedetto XVI  sottolineò nell’importantissimo, contestatissimo e strumentalizzato discorso di Ratisbona nel quale disse che il fondamentale problema della cultura islamica è quella di non conoscere la legge eterna, di non conoscere la legge naturale, ma solo la legge positiva.
Ma cos’è la legge eterna. Ciò che Dio decide per l’Uomo è espresso nella sua natura, cioè di come Dio ha fatto l’Uomo. Se il mio stomaco è fatto per digerire bene ed in modo proficuo un cespo di insalata e invece digerisce male, anzi malissimo le foglie di cicuta tanto da morirne, vuol dire che Dio, il mio stomaco l’ha progettato così.
Ci sono cioè delle cose che non sono io a decidere che mi facciano bene o male. Ci sono delle cose che mi fanno bene e delle cose che mi fanno male per natura. Questo rispecchia il progetto di Dio che mi ha fatto come mi ha fatto. Questo vale a livello fisico, ma vale anche a livello morale, cioè a livello dell’organismo spirituale dell’Uomo. Ci sono delle cose che mi fanno male e mi distruggono, mi impoveriscono, mi isolano, mi rendono triste o addirittura cattivo e quindi mi rendono infelice. Ci sono altre cose che invece mi fanno bene, mi arricchiscono, mi potenziano, mi perfezionano, mi aprono. Le prime le chiamo Male, le seconde le chiamo Bene. Il male si chiama male perché mi fa male, il bene si chiama bene perché mi fa bene. La natura umana rispetta il progetto del Creatore.
La legge eterna è il piano con il quale Dio come re dell’universo e creatore ha fatto e governa le cose. Questo si rispecchia nella legge naturale, cioè nel meccanismo in cui è fatto l’Uomo.
La legge naturale. C’è una legge fisica che governa il mondo, gli astri, gli animali, ecc.
La legge positiva. La legge eterna si rispecchia nella legge naturale. La legge naturale è il fondamento imprescindibile della legge positiva. Solo a questo punto si inserisce la legge positiva, cioè il frutto delle decisioni. La legge positiva è quella espressa dal codice civile. Il fatto che l’adulterio (o il furto o l’omicidio o l’empietà) siano Male, non è cosa che possiamo decidere noi. Questo è inscritto nella natura del mondo e nella natura dell’Uomo. Chi fa queste cose è malvagio e non possiamo decidere diversamente, perché siamo fatti così. Siamo fatti così per avere con Dio, con gli altri e con noi stessi un rapporto sano, vero, giusto. Se questo rapporto non è così siamo cattivi, cioè siamo moralmente nell’errore ovvero abbiamo adottato un comportamento sbagliato. Se la legge positiva è in linea con tutto questo è come un indicatore stradale corretto e che ci guida verso la meta, se la legge positiva si discosta o si rende autonoma dalla legge naturale diventa un indicatore stradale che ci manda una volta da una parte, un’altra volta da un’altra magari solo in funzione della decisione di un potente o di una maggioranza. Cioè la legge positiva ci aiuta a raggiungere la Felicità se rimane in sintonia con la legge divina, ci confonde le idee e ci porta lontano dalla Felicità vera per rincorrere felicità apparenti, provvisorie, limitate e che poi ci lasciano vuoti. Benedetto XVI , come i suoi predecessori, ci hanno sempre messo in guardia su questo richiamandoci insistentemente a questi principi per farci capire che più ci allontaniamo dalla legge divina più l’infelicità ci domina.
La legge positiva si distingue poi in civile ed ecclesiastica. Civile se regola la vita sociale dell’una o dell’altra comunità umana.

La Coscienza

 

L’obiettivo dell’Uomo è la Felicità. La felicità si raggiunge conoscendo ed amando Dio e sentendoci conosciuti e amati da Lui in questa vita e nell’eternità (cioè sempre). La via alla Felicità, cioè conoscere ed amare Dio in modo adeguato è la legge, cioè vivere secondo le esigenze e le potenzialità della nostra natura conformemente al progetto di Dio. Ma io dove la scopro o come la sento o come la applico la legge di Dio? Ci vuole la Coscienza. La Coscienza è la legge interiorizzata, è la scoperta dentro di me di ciò che è adeguato al progetto di Dio. La Coscienza la debbo scoprire, non creare. Debbo cioè scoprire come sono stato fatto da Dio, non decidere io cosa per me è male o bene, che in sostanza è il peccato originale (sarai come Dio, cioè deciderai tu cosa è bene e cosa è male). L’Uomo è creatura, non può farsi da solo, ma si trova già fatto e fatto in un certo modo. In un modo che certe cose gli fanno bene e altre gli fanno male. Un motore Diesel è fatto per funzionare con il Gasolio, se io gli metto della Benzina lo danneggio.
La coscienza è vincolante anche quando è erronea. Se sono convinto che una cosa è giusta io, per come sono fatto, debbo farla. E qui nasce l’esigenza di formare la propria coscienza, per infondere in essa la legge di Dio, ovvero per sintonizzarla con il progetto di Dio. Praticamente questa formazione avviene automaticamente e naturalmente fin dall’infanzia in Famiglia nei casi normali (educazione familiare). Per altri sarà lo sbattere il naso contro fini che apparentemente mi conducono alla Felicità e che poi verifico essere errati e infelici e che mi dovrebbero portare a ricercare fini della mia vita sempre più adeguati al mio bisogno di felicità vera che dovrebbero con l’aiuto di Dio (normalmente attraverso delle testimonianze positive) portare a poco a poco ad incontrare l’amore di Dio e al bisogno di conformarmi alla sua legge d’Amore. Qui entriamo nel discorso sempre complesso del libero arbitrio e della libertà di scelta del bene o del male, cioè della responsabilità individuale in merito. Resta il fatto che appare chiaro che Dio vuole che ciascuno di noi sia aiutato e dipenda da altri uomini nella fede come nella ragione (genitori, educatori, sacerdoti, testimoni  di fede e di buon senso). Da qui la grande responsabilità da parte di chi è stato ben guidato di prestarsi ad aiutare chi non ha avuto questa fortuna (meglio dire Grazia). L’animale ha l’istinto che lo guida, cioè i binari su cui andare per sopravvivere e conservare la specie. L’Uomo ha la Coscienza che perè ha bisogno di altri uomini per formarla secondo il disegno di Dio e stare su questi binari.


I mezzi per raggiungere i fini: le virtù.

Gli abiti buoni. La Virtù per Tommaso è la ripetizione degli atti buoni. Ripetendo gli atti buoni io acquisto l’abito, cioè l’abitudine. Acquisisco una buona abitudine. Mi diventa cioè sempre più automatico e meno faticoso l’agire bene. Se invece acquisisco una cattiva abitudine, mi risulta sempre più automatico continuare in essa e sempre più difficile venirne fuori. La cosa diventa in breve distruttiva.
Qual è il passaggio dall’atto all’abito? L’atto è una cosa che io faccio una volta, ma quando la faccio più volte diventa sempre meno difficile e faticosa e sempre più naturale e perfezionata. Anzi mi diventa una cosa fatta con gioia e soddisfazione. Tommaso fa l’esempio dello scrivere, all’inizio è una cosa difficile e impegnativa e spesso addirittura scoraggiante, ma una volta che abbiamo preso la mano diventiamo più abili e veloci e diventa tutto più facile. Oggi potremmo fare l’esempio della guida di un’auto, all’inizio è fonte di ansie e preoccupazioni, ma poi una volta presa la mano diventa così automatica che per molti la guida è anche un piacere.
Per le cattive abitudini Tommaso ci dice che qui è più facile e semplice passare velocemente dall’atto all’abito, non richiede un grande sforzo, ma lo sforzo diventa enorme se vogliamo tirarcene fuori.
La filosofia morale di san Tommaso d’Aquino ha come obiettivo la Felicità, la Felicità ha come strada la legge, la legge è interiorizzata dalla coscienza e si realizza nella nostra vita attraverso l’esercizio delle virtù e la lotta contro il vizio.

LA POLITICA

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La Politica dai Presofisti ad Aristotele


San Tommaso d’Aquino è il filosofo dell’essere. Esiste la realtà. Questa realtà è penetrabile dalla mia ragione. La mia ragione riconosce che la realtà esiste indipendentemente dal pensiero, che non la crea, e legge nella realtà la legge naturale che rispecchia quella di Dio.

Oggi invece si parla sempre più spesso di autonomia, autonomia deriva dal greco antico autènomos, (parola composta da ατο-, auto- e νόμος, nomos, "legge", ovvero "legge propria", “legge per se stessa”) si intende la possibilità per un soggetto di svolgere le proprie funzioni senza ingerenze o condizionamenti da parte di terzi.
La ragione moderna ha una visione politica completamente diversa da quella degli autori fin qui trattati. Questo perché la ragione moderna (dopo il medioevo) assimila il problema politico alla storia e al tempo. Dal 1789 (rivoluzione francese) noi usiamo nella politica aggettivi che fanno riferimento alla dimensione temporale, non alla dimensione della verità oggettiva delle cose. Uno dei termini più usati in politica è progressista o conservatore, cosa che fa capire che non ci riferiamo ad un dato oggettivo ma ad un dato temporale, dopo qualcosa che è stato (progressista) o prima di qualcosa che è stato (conservatore). Oppure avanzati o arretrati, ma rispetto a che cosa? Rivoluzionario o reazionario. Rivoluzionario che vuole cambiare le cose (che sempre più spesso si sono dimostrate peggiori delle precedenti) o reazionario che reagisce o fa resistenza al cambiamento e ostacola il progresso (ma progresso o progredire verso che cosa?).
Per trattare il pensiero politico di san Tommaso partiamo da lontano, vediamo prima il problema politico dalle origini del pensiero al medioevo. Per fare questo ci appoggiamo ad un autore del ‘900, Karl Popper che nel 1945 scrisse la  sua opera più conosciuta “La Società aperta e i suoi nemici” (Armando editore 2004).
Per Popper la Società aperta è quella società che non individua nessun criterio assoluto con il quale organizzare la vita politica. Cioè non riduce a nessun principio assoluto l’azione politica. Anzi il fare riferimento ad un principio assoluto viene chiamato con tonalità negative “riduzionismo”. La società è aperta perché ognuno ha la sua visione delle cose, una sorta di liberalismo democratico. Ricordiamo che siamo appena usciti da una guerra contro regimi totalitari, ma con uno di questi, quello comunista, che troviamo invece intorno al tavolo dei vincitori.
Popper affronta dapprima il tema della politica nell’antica Grecia. I presofisti per esempio non si occupano di politica, il loro interesse è tutto concentrato sulla cosmologia, loro cercavano l’Archè, il principio e l’origine delle cose, la physis era la natura, il tutto omnicomprensivo.

Sono poi i Sofisti che vivono nella Polis democratica (da cui la parola politica) nell’epoca di Pericle che invece si occupano proprio di politica.
Protagora è visto da Popper come uno degli anticipatori del liberalismo odierno, dice infatti che “l’uomo è la misura di tutte le cose”. Cioè l’Uomo è nomos o legge di se stesso che si differenzia dalla physis o legge della natura. I Sofisti infatti mettono una barriera tra il pensiero e la realtà (mentre i presofisti partivano dalla realtà per cercare di capirla). In altre parole i sofisti affermano che “nessuno ha la verità in tasca” e la dimensione religiosa, se uno ce l’ha è una cosa interiore tutta sua e guai farla entrare nella sfera politica e imporla agli altri. Non c’è una Verità assoluta, la Verità se c’è è irraggiungibile e sarebbe inoltre difficile o addirittura impossibile spiegarla e comprenderla, quindi tanto vale abbandonarla e cercare come punto di riferimento l’utilità comune per il momento che viviamo. Ne consegue che Protagora è un amico della Società aperta.
Gorgia invece, molto più radicale di Protagora è di fatto un nichilista, afferma addirittura che nulla esiste. Presa questa affermazione come la Verità, diventa un assoluto, un criterio di riferimento che si impone e diventa nemico della Società aperta (che è chiusa ad ogni forma di assoluto). Quindi individuando Gorgia un criterio (nulla esiste) a cui la politica potrebbe far riferimento, questi è giudicato un pericolo della Società aperta. Gorgia cioè di fatto individua un criterio assoluto (una verità) e riduce tutta la vita dell’uomo a quel criterio.
Per i Sofisti la Verità non esiste. Non esiste nulla di assoluto. Se non c’è verità, se le cose non le posso conoscere e non sono testimoni delle mie idee, con un adeguato linguaggio posso dire tutto quello che voglio e convincere su qualunque argomento e sostenere il giorno dopo anche il contrario di quello che ho detto il giorno prima. Chi meglio parla domina.
È il linguaggio che così diventa onnipotente, esso si sostituisce alla Verità, perché Verità, o principio di riferimento, diventa l’abilità oratoria e la capacità di convincimento. A tutt’oggi, politici, attori, manager, presentatori Tv, ecc. fanno corsi di oratoria per diventare più credibili e allontanare la voglia di indagare e verificare la validità di ciò che dicono. Chi poi usa al meglio la sua capacità comunicativa per far emergere la Verità viene fatto annegare in mezzo a mille altre verità o viene attaccato sul fronte morale per ficcarne la credibilità.
Socrate è famoso per aver obbedito alla legge anche se ingiusta rifiutando la possibilità di fuga offertagli. E Popper lo vede come un amico della Società aperta perché legge in lui il primato della coscienza. Apprezza inoltre la sua affermazione del vero come universale, ma però in continua ricerca: “una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”. In altre parole non impone un assoluto, lo auspica e lo ricerca, quindi di fatto rimane aperto a valutare diverse possibilità.
Platone invece è considerato il peggior nemico della Società aperta perché nella sua opera La Repubblica, Platone vede come riferimento politico assoluto, una verità assoluta e trascendente, il Bene (il bene comune) e che questo bene è conosciuto dai filosofi e che quindi questi sono i soli in grado di governare proprio per questa loro visione che gli altri non hanno. Gli altri hanno altre qualità che saranno poi utili per la produzione, per la guerra, ecc. Inoltre l’idea platonica di  scaricare la classe governante dalle responsabilità dell’educazione dei figli e della Famiglia o dalla gestione delle proprie proprietà per dedicarsi al governo della città, lasciando quindi allo stato l’educazione dei figli e la gestione delle proprietà comuni, fanno condannare Platone a nemico della Società aperta e della autonomia della Famiglia e dei suoi rapporti sociali, come l’autonomia dei vari gruppi sociali spontanei.
Aristotele considera l’Uomo un animale socievole, cioè che vive naturalmente in società e si organizza in essa, in famiglie e in gruppi sociali spontanei e autonomi, ecc. e quindi è considerato amico della Società aperta.

La Politica nel Medioevo


Dopo Aristotele e per l’avvento dell’impero macedone di Alessandro magno, le polis si spengono e anche la politica non è più occasione di dibattito o di interesse pubblico. Le nuove scuole ellenistiche si concentrano sull’individuo e non più sulla polis e si preoccupano di indicare agli studenti vie per la propria felicità personale piuttosto che per organizzare la società.
Per quanto riguarda i temi della politica dobbiamo saltare decisamente al Medioevo.

Sant’Isidoro da Siviglia

Iniziamo da Sant’Isidoro di Siviglia (Dottore della chiesa e che fu vescovo della città spagnola durante il dominio dei Visigoti e prominente esponente del mondo culturale suo contemporaneo) che scrive le “Etimologie” proprio nel momento che l’Impero Romano è crollato e non c’è più un potere politico. Egli si sofferma sull’etimologia della parola REX che deriva da REGERE e da RECTE. REGERE: governare e RECTE: rettamente. Cioè il Re deve governare secondo quello che poi san Tommaso chiamerà la legge eterna, quella che è inscritta nella natura. Il Re deve governare secondo verità e giustizia e per il vero bene comune, il suo potere è dato da questo. Deve quindi conoscere come è fatto l’uomo, come Dio lo ha concepito e in cosa consiste il suo bene.

Sant’Agostino

Sant’Agostino nella sua opera “de civitate dei” afferma che l’assoluto è intrascrivibile. Cioè non può esistere un governo che possa essere modello assoluto ed eterno, come si pensava potesse essere l’impero romano, che già con Agostino dava segni di disfacimento. Agostino infatti scrive per difendere i cristiani accusati di essere la causa del crollo imminente dell’Impero, e li difende dicendo che è impossibile che qualcosa di questo mondo possa essere assoluto ed eterno o specchio dell’assoluto.

Papa Gelasio I

Interessante è a questo punto esaminare quanto asserisce Papa Gelasio I  del V  secolo, testimone oculare del crollo dell’Impero romano (476). Egli vede la necessità di una netta separazione fra potere temporale del Sovrano o dell’Imperatore che regge o governa o impera e il potere spirituale della Chiesa (del Papa e dei Principi della Chiesa) che è prettamente spirituale.
Questa separazione però non va vista come due enti distinti, separati, ma sullo stesso piano. Vanno visti in una situazione di subordinazione del potere temporale a quello spirituale. Questo perché gli uomini tutti, dal sovrano all’ultimo contadino, rendono conto a Dio attraverso la mediazione degli uomini di Chiesa. La supremazia della sfera spirituale su quella materiale è quindi conseguenza del rapporto fra Dio e gli uomini, rapporto che Dio ha voluto sia gestito attraverso un ponte fra Lui e gli uomini rappresentato da Pietro  e i suoi successori che per questo si chiamano Pontefici. Il potere temporale è quindi giudicato da quello spirituale. Questa cosa disturberà spesso Sovrani e Governanti oppure all’opposto sarà usata per auspicare governi teocratici.
La scuola di Chartres  fu una scuola cattedrale di studi universitari filosofici e teologici sorta alla fine del X secolo a Chartres per iniziativa di Fulberto, vescovo di Chartres, e proseguita fino al secolo successivo, avendo come programma lo sviluppo della teologia cristiana mediante l'utilizzo della Filosofia platonica. Si trattava di uno dei più grandi istituti appartenenti al sistema educativo della scolastica medievale. I filosofi di Chartres assimilarono la dottrina di Platone attraverso il pensiero neoplatonico di Agostino d'Ippona e di Severino Boezio. Vi insegnò  Giovanni di Salisbury che nel suo Polycraticus afferma la derivazione del potere temporale da quello papale e che la legge dello stato fonda la sua validità morale sull'equità: se il principe non rispetta il principio etico dell'equità i sudditi sono in diritto di ribellarsi e di liberarsi del tiranno anche con la sua uccisione. Questa  sua opera fa parte degli Specula principium, cioè lo specchio dei principi, una sorta di manuale di comportamento per principi e regnanti.
Gli specula principum appartengono a un genere letterario di tipo didattico, che ha per oggetto precipuo il retto comportamento dei regnanti e la loro arte di governo (Rex, Regere Recte, governare rettamente). Nel descrivere e prescrivere un modello ideale, l’intenzione degli autori è quella di dotare di un senso soprattutto religioso e morale l’ordinamento politico e, più in particolare, l’ufficio del principe. Le regole degli specula, che per lo più hanno anche un contenuto religioso, mirano a disegnare il comportamento moralmente retto del principe per il raggiungimento di fini politici legittimi. Le loro riflessioni, infatti, si concentrano sia sull’analisi dell’ufficio principesco, che sulla sua legittimità, e propongono una teoria politica a carattere normativo. I temi possono essere i più vari: la presentazione di un sovrano ideale, l’esortazione a perseguire un comportamento giusto e a evitare le azioni malvagie, l’educazione e la preparazione all’attività di governo, la legittimità, i compiti e i modi di esercizio della sovranità. La fortuna della metafora speculare e del suo utilizzo nei campi più diversi del sapere medievale e moderno, dalla letteratura alla filosofia, dalla teologia alla storia e al diritto, è dovuta alla sua presenza nella Scrittura, in particolare nelle epistole paoline, e all’idea, nata con i Padri, della Scrittura stessa come uno specchio nel quale l’uomo «può scorgere il suo “dover essere” e trarne motivo di meditazione»; lo specchio diventa pertanto «mezzo di conoscenza, tale da apportare un insegnamento sia puramente informativo, sia normativo».

La politica nel secolo di san Tommaso

La storia del XIII  secolo in cui vive Tommaso d’Aquino è segnata dallo scontro fra il Papato e il Sacro Romano Impero che aspirano entrambi alla supremazia politica universale. La lotta fra i due principali poteri politici dell’epoca in Italia viene resa più complicata dall’ascesa dei comuni che lottano per la difesa della propria autonomia.
L’Imperatore Federico primo di Svevia, detto il Barbarossa, guida più volte il suo esercito contro la Lega dei Comuni, la Lega Lombarda che alla fine lo sconfigge nella battaglia di Legnano. Viene firmata così la pace di Costanza nel 1183 con la quale l’Imperatore si impegna a rispettare l’indipendenza dei comuni italiani.
Città come Firenze, Pisa, Genova, Venezia avevano acquisito la fisionomia di piccole repubbliche autogovernate e per questo si opponevano alla dominazione imperiale e ambivano all’indipendenza. Al loro interno tuttavia si riproponeva l’opposizione fra i due grandi poteri del Medioevo, attraverso la lotta fra due fazioni. I sostenitori del Papa, i Guelfi e i sostenitori dell’Imperatore, i Ghibellini.
Nel frattempo anche il sacro romano impero va incontro ad una lenta crisi. Al tempo in cui Tommaso nasce e compie i suoi studi siede sul trono imperiale Federico II , nipote del Barbarossa, che opera in Italia ponendo la propria corte in Sicilia. Presto anche Federico II  entra in urto con il Papato che mira ad arginare la potenza della casa imperiale tedesca. Scoppia quindi una guerra che dura fino alla morte di Federico II  nel 1250. Mentre si protrae il conflitto fra Chiesa e Impero, il consolidarsi delle monarchie nazionali e l’affermarsi delle autonomie locali mettono profondamente in crisi le due istituzioni e con loro i sogni di supremazia universale che avevano dominato il Medioevo. Concludiamo dicendo che l’Impero e la Chiesa si sentono entrambi strutture Universali e non strutture Particolari.
Il Medioevo è quindi l’epoca di due Universalismi, l’Impero e la Chiesa che si considerano entrambi universali ma con il concetto che è il Papa che incorona re e imperatori legittimandone così l’autorità e la dovuta obbedienza dei sudditi (dovuta solo se governati bene) a partire dall’incoronazione di Carlo Magno (Defensor Ecclesie) nel Natale dell’800 che garantiva la gestione dell’Impero secondo giustizia e verità. Per morire poi con Napoleone la cui incoronazione avviene ancora con la presenza del Papa, cioè c’è ancora una bisogno di legittimazione, ma l’incoronazione  se la fa da solo Napoleone stesso. Poi con l’avvento della Repubblica e di Re ed Imperatori che non riconoscono più l’autorità della Chiesa, anzi sempre più spesso la combattono o la dividono in Chiese locali. L’universalità della Chiesa è sempre più messa in discussione ma anche quella dei regnanti e governanti è sempre più soggetta a ribellioni e a guerre di potere e di dominio sulle popolazioni senza una autorità morale che ne moderi le ambizioni e le violenze.

La concezione politica di San Tommaso

Nei confronti del problema politico Tommaso parte da due presupposti, che egli considera assodati: il valore positivo della società umana; la dipendenza dello Stato dalla Chiesa. Tommaso non ha difficoltà ad ammettere l'autonomia del diritto naturale, fondato sulla ragione, rispetto al magistero ecclesiastico. Quello che gli preme di dimostrare è la razionalità della soggezione dello Stato alla Chiesa. Il ragionamento di Tommaso è semplice: Cristo è il signore di tutti gli uomini e il papa è il suo vicario in terra. Quindi il papa è signore di tutti gli uomini, compresi re e imperatori. A questo argomento generale il filosofo ne aggiunge un altro di natura particolare: il papa ha la cura del fine ultimo di tutti gli uomini; re e imperatori curano invece solo fini intermedi (ordine della convivenza, benessere generale, ecc.). I fini particolari sono subordinati al fine ultimo, quindi re e imperatori devono essere sottomessi al papa.
Se la legge degli uomini non rispecchia più la legge naturale, che rispecchia a sua volta la legge eterna, nasce la tirannia. Tommaso quindi giustifica la ribellione ad un potere politico che non rispetta più la legge  naturale  e che elabora una propria visione del mondo e la impone a tutti. Purché però questa ribellione non comporti un danno maggiore per i sudditi. Ieri come oggi quando la legge naturale non è rispettata da chi ha la sovranità di un popolo e impone una propria legge, i sudditi vivono male e tendono a ribellarsi. La ribellione poi rischia di peggiorare le cose e imporre un tiranno peggiore del primo con alto numero di vittime innocenti ( vedi le rivoluzioni passate e quelle in atto). Anche questa è una dimostrazione del realismo di San Tommaso che aggiunge che anche la così detta “guerra giusta” cioè quella fatta non per attaccare, ma per difendersi, è giusta solo se c’è una fondata (reale) speranza di vittoria. Il che vuol dire che se la guerra giusta è causa della distruzione di una popolazione, non può più dirsi giusta.

Approfondimenti

La Politica di Aristotele era stata completata da Guglielmo di Moerbeke e nel 1270 Tommaso ne intraprende lo studio e l' analisi arrestandosi al secondo libro. Diversamente dalla tradizione agostiniana, Tommaso non pensa che lo Stato sia una condizione necessaria per tenere a freno l' uomo dopo la caduta nel peccato. Per Tommaso, invece, il peccato originale non ha corrotto completamente la natura umana, anzi egli condivide con Aristotele la tesi che sia costruttivo della natura dell' uomo l' essere un animale politico o socievole. Alla società  politica ( civitas ), o alla persona che ha cura di essa, spetta il compito di ordinare le leggi, le quali hanno come proprio fine il bene comune. La politica è la scienza concernente gli strumenti necessari per realizzare il bene più alto nell' ambito delle cose umane. Esso è il bene comune, in quanto ogni uomo è per natura parte della comunità  e non può, sul piano delle cose umane, raggiungere il proprio bene se non come bene anche della comunità . La forma di governo che meglio consente di raggiungere questo obiettivo è per Tommaso la monarchia. Essa infatti, come governo di uno solo, garantisce meglio l' ordine e l' unità  dello Stato: essa è la forma che più assomiglia al governo divino del mondo. Le leggi stabilite dalla civitas, o dal principe in suo nome, sono leggi umane. La validità  e la bontà  di esse dipende dalla loro conformità  alla legge naturale. La nozione di legge naturale proviene a Tommaso da un' antica tradizione di origine stoica, confluita negli scritti politici di Cicerone e nello stesso diritto romano. Essa consiste nell' inclinazione al bene naturale comune a ogni creatura, in primis all' autoconservazione, e agli atti insegnati dalla natura stessa, come l'unione di maschio e femmina e l'allevamento dei figli. Ma nel caso dell'uomo, avente natura razionale, essa consiste anche nell'inclinazione ai fini propri della natura razionale, come il vivere in società , la conoscenza della verità , ecc. Le leggi umane o positive derivano dalla legge naturale e consistono nella determinazione particolare delle cose alle quali si riferisce la legge naturale. Una legge positiva che non si conformi alla legge naturale non è per Tommaso una vera e propria legge, ma soltanto un'imposizione arbitraria, che non può legittimamente pretendere obbedienza: “Quando una legge è ingiusta, disobbedire è un dovere”, può tranquillamente affermare Tommaso. Il fondamento della legge eterna è la ragione divina che governa tutte le cose. Rispetto ad essa Tommaso distingue la legge divina propriamente detta, la quale è necessaria per indirizzare l' uomo al suo fine soprannaturale, ossia alla beatitudine eterna. Mentre la legge eterna e, di conseguenza, la legge naturale che ne partecipa, può essere conosciuta dalla ragione umana, la legge divina può essere conosciuta soltanto grazie alla rivelazione da parte di Dio stesso. Lo stato può perseguire soltanto il bene comune nell' ambito delle cose umane e su questo piano esso è dotato di autonomia, cosicché anche le organizzazioni statali di non cristiani hanno legittimità . Però lo Stato non è di per sé in grado di orientare verso il superiore fine soprannaturale dell' uomo, al quale mira invece la Chiesa fondata da Dio stesso. La conseguenza è che il governo politico deve subordinarsi al governo religioso, proprio di Cristo e da lui affidato al suo vicario in terra, il Papa. Per Tommaso si tratta di una supremazia spirituale del papa rispetto a tutti i re della terra. Sarà  invece Tolomeo di Lucca, nelle sue aggiunte al De regimine principum, lasciato incompiuto da Tommaso, a interpretare in senso teocratico la dottrina di Tommaso, come supremazia del potere del papa anche nelle cose temporali.
Dante Alighieri entra in polemica con Bonifacio VIII  perché vede il potere politico svincolato da quello spirituale, mentre lui è ancora legato dall’idea che questi poteri debbano essere assoluti e universali. Nella realtà invece si stanno formando dei particolari, sempre più svincolati dagli universali, cioè i grandi imperi si stanno sfaldando e agli universali stanno subentrando le monarchie nazionali, cioè i particolari. Altrettanto la sua condanna di Celestino V  (Pietro da Morrone), “colui che per viltà fece il gran rifiuto”, è ancora legata all’universalismo della Chiesa che Dante non accettava di veder finire. Celestino forse si ritirè proprio perché capì come le cose stavano cambiando e come la fede era in grave pericolo di contaminazione se invischiata nei giochi di potere.
 

De Monarchia


È un trattato in prosa latina di argomento storico-politico, in tre libri, scritto da Dante probabilmente nel 1310-1313. Il tema affrontato è la necessità di una monarchia universale, che unifichi sotto il suo dominio tutta l'Europa.

 

I libro

Dante sostiene la necessità, storica e filosofica, della monarchia universale, ovvero di un dominio politico che unifichi sotto di sé tutto il mondo cristiano: questa istituzione ha come fine principale quello di assicurare il rispetto delle leggi e, quindi, assicurare la giustizia nel mondo, condizione indispensabile affinché gli uomini raggiungano la felicità terrena col possesso delle quattro virtù cardinali. Dante individua come ostacolo a tale raggiungimento la cupidigia dei beni terreni, che distolgono l'uomo dal perseguimento della virtù, quindi attribuisce al monarca universale il compito di frenare l'avarizia degli uomini attraverso lo strumento della legge. La necessità della monarchia universale si spiega anche col bisogno, connaturato negli uomini, di un'unica guida che li orienti alla conoscenza e alla condotta moralmente corretta, cosa che si è già storicamente verificata durante l'Impero di Augusto che assicurò al mondo romano la pace.

II libro

Ha un argomento più prettamente storico, in quanto Dante si sofferma sul carattere provvidenziale dell'Impero romano, voluto da Dio per assicurare una condizione di pace e stabilità al mondo e unificare i popoli in un'unica legge, così da preparare l'umanità alla nascita di Gesù. Altrettanto ha fatto poi il Sacro Romano Impero che dell'Impero di Roma antica è legittimo erede.

III libro

È dedicato alla spinosa questione dei rapporti tra Chiesa e Impero, assai dibattuta al tempo di Dante. L'autore confuta entrambe le tesi che allora si contrapponevano, ovvero quella filoimperiale che sosteneva la supremazia dell'imperatore sul papa e quella filopapale, che sosteneva l'opposto e cioè che l'autorità imperiale dipendeva non da Dio bensì dal papa (era la cosiddetta teoria «del sole e della luna»). Con argomenti storici e filosofici Dante afferma che i due poteri, quello spirituale e temporale, devono essere distinti e autonomi, in quanto destinati a scopi del tutto diversi: fine dell'imperatore è di condurre gli uomini alla felicità terrena attraverso la giustizia e il rispetto delle leggi, mentre quello del papa è di condurre gli uomini alla felicità eterna attraverso il magistero della fede e l'insegnamento dei principi dottrinali. Nulla è quindi l'autorità temporale del papa, poiché non ha valore ed è da condannare la famosa donazione di Costantino che Dante riteneva autentica, mentre il potere dell'imperatore deriva non dal papa ma direttamente da Dio. I due poteri sono dunque reciprocamente autonomi e indipendenti l'uno dall'altro, anche se il sovrano deve al papa una sorta di rispettosa deferenza come riguardo alla maggiore importanza della sua carica, proprio come un figlio deve rispetto al padre.

L’Uomo a tre dimensioni


Il concetto di politica di Dante deriva dai trascendentali VERUM, BONUM, PULCRUM, cioè dalle perfezioni dell’essere, quelle che caratterizzano l’essere e quindi anche l’uomo, l’essere per eccellenza. Verum, perché l’essere è la verità di se stesso, Bonum, perché è buono, cioè corrisponde alla propria natura, alla propria finalità, Pulcrum, perché quando un essere è unico, vero e buono è in estrema sintesi puro, bello e ben definito. Questi sono i trascendentali che definiscono l’uomo a tre dimensioni, concetto ben chiaro agli uomini del medioevo e usato da Dante nella sua Commedia. Infatti in essa vi è la visione dell’uomo in tre dimensioni, quella che riguarda il suo problema Religioso (legato al Destino), quella che riguarda il suo problema dell’Affettività (legato alla propria Vocazione) e il suo problema Politico (legato a come ciascuno è utile al bene comune). Questo concetto dell’uomo a tre dimensioni lo troviamo anche nel Catechismo di Pio X, che i nostri padri e nonni mandavano a memoria, alla domanda “perché Dio ci ha creati?” il catechismo risponde: “per conoscerlo, per amarlo e per servirlo”. Conoscerlo (Verum) problema religioso, Amarlo (Bonum) problema affettivo, Servirlo (pulcrum) problema politico, cioè prendersi cura del creato (così bello), prendersi la responsabilità di realizzare il regno di Dio già su questa terra, rendere le proprie azioni di utilità per il bene comune, fare la cosa giusta, continuare la creazione (la vera finalità della Politica). Gesù infatti si è definito Verità (Verum), Vita (Bonum), Via (Pulcrum) che corrisponde alle tre virtù teologali Fede (Verità), Carità (Vita), Speranza (Via) nella possibilità di costruire il Regno di Dio già su questa terra, per goderlo poi in Paradiso. Ma a questo punto si evidenzia la Trinità divina: Fede, il Padre, Carità, lo Spirito Santo, Speranza, il Figlio. Da qui il forte coinvolgimento di Dante nella politica (cioè usare la vita per realizzare una buona politica) e l’amara constatazione che essa finisce sempre nella mani dei più potenti e prepotenti che privilegiano la propria utilità a quella del bene comune.
Le tre dimensioni positive dell’uomo hanno il loro contrario nei peccati capitali, che Dante tratta nell’Inferno e nel Purgatorio. Il Potere, la Lussuria e l’Usura (che intende il dio danaro). La Morale Cristiana si contrappone a questi peccati con l’Umiltà, cioè l’Obbedienza a Dio e ai suoi disegni (il rapporto con il mistero), la Castità, il corretto uso del proprio corpo (il rapporto con il corpo proprio e altrui) e la Povertà che tiene lontano dalla schiavitù dell’Egoismo, del Potere e del Danaro (il rapporto con il mondo, cioè la Politica). Dante tratta il peccato come tradimento della propria natura di uomini liberi, amati da Dio e fatti a sua immagine e somiglianza, destinati alla felicità con l’aiuto della Morale Cristiana (sintesi della rivelazione divina) che ci indica con chiarezza cos’è il bene comune e la buona Politica. (Estratto e sintetizzato da una conferenza su Dante del Prof. Franco Nembrini)

La politica in Guglielmo d’Ockhman


Guglielmo, nella disputa tra Papa, Imperatore e i nuovi poteri delle monarchie nazionali e delle città, che si ponevano spesso allo stesso livello dei poteri "universalistici" del Papa e dell’Imperatore, si oppose alle tesi ierocratiche di Bonifacio VIII ( ierocrazia  dal greco  letteralmente potere dei sacri, che indica una forma di governo in mano a persone che incarnano la divinità, come i sacerdoti). Secondo Guglielmo autorità religiosa e civile dovevano essere nettamente separate perché finalizzate a scopi diversi, così come diversi erano i campi della fede e della ragione. Guglielmo fu comunque influenzato dall’amico Marsilio da Padova, avverso al potere temporale della Chiesa, e che assieme a lui subì l'esilio, e che sosteneva che  il potere di comandare su tutte le altre parti, è un potere delegato, esercitato in nome della volontà popolare. La conseguenza di questo principio era che l'autorità politica non discendeva da Dio o dal papa, ma dal popolo. Ockhman è convinto dell'indipendenza di fede e ragione e porta alle estreme conseguenze quella linea di pensiero che aveva già perseguito Duns Scoto. Ovvero le verità di fede non sono per nulla evidenti e la ragione non le può indagare. Solo la fede, dono gratuito di Dio, può illuminarle. 

Programma della seconda Tappa: 
I Lumi del Medioevo

·         2t-6-San Tommaso d'Aquino (1)
·         2t-7-San Tommaso d'Aquino (2)


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