LA FILOSOFIA MORALE
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L'importanza del pensiero
di Tommaso nella tradizione cattolica e nella storia della filosofia si fonda
sulla sistemazione, da lui operata, di un intero patrimonio culturale.
Servendosi del pensiero di Aristotele,
adeguatamente cristianizzato dall'interno, Tommaso poté fornire un ordine di
risposte chiare e definitorie alla filosofia. Uno dei suoi intenti primari (e ciò
aveva già precedenti nella scolastica) era l'accordo tra teologia e filosofia,
rivelazione e ragione. Mediante lo spirito stesso dell'aristotelismo Tommaso volle fornire agli interrogativi primi
dell'uomo risposte che sul piano della ragione naturale si accordassero con i
dati della rivelazione. Contro ogni spiritualismo platonico e mistico
che poteva portare a confondere i due piani distinguendo la teologia, come
riflessione sul discorso fatto da Dio all'uomo, dalla filosofia, come sforzo
umano di conoscere la verità, fissò in definizioni le risposte che la ragione
umana con le sue forze poteva, secondo lui, attingere. Per Tommaso infatti la
filosofia non può oltrepassare il campo naturale. Al di là delle verità che la
filosofia può dimostrare (per esempio che Dio esiste, che è uno, eterno ecc.),
ci sono verità che si possono credere per fede e mai dimostrare, sebbene si
possa dimostrare la loro non contraddittorietà intrinseca: per esempio che il
mondo non sia eterno, che Dio sia uno e trino ecc. La filosofia è ancilla
theologiae. Lo
spirito stesso dell'aristotelismo è in Tommaso: anzitutto assegna alla
filosofia un compito scientifico, dimostrativo; quindi opera secondo
distinzioni e categorie logiche, dove tutto è determinato in base al principio
di contraddizione e nessuno spazio è
lasciato a un'esperienza immediata e naturale della natura divina. Come è
chiaro, proprio l'aristotelismo, prima che una filosofia, è per Tommaso la
possibilità di sistemare una volta per tutte razionalmente le cose che vanno
considerate vere in accordo con la teologia cattolica.
L’incontro fra Fede e Ragione
Riprendiamo l’opera maggiore di San Tommaso: la Summa
Theologiae. La scrisse riferendosi alla Bibbia e ai Dogmi della Chiesa
cattolica, ma importante fu anche il riferimento alla filosofia di Aristotele e
alla teologia di Sant’Agostino.
Scritta in latino la Summa tratta tutti i temi con la
struttura delle questiones. Ogni tema
prevede una serie di domande a cui, con metodo analitico, si giunge ad una
risposta soddisfacente per la questione iniziale. Nell’opera sono presenti un
totale di 512 domande che toccano ogni campo della cultura cristiana, dalla
creazione alla trinità, dal male all’uomo e il cosmo, dal peccato alla grazia e
il merito, da Cristo ai Sacramenti.
È il trattato più famoso della teologia medioevale ed è
centrato principalmente sul rapporto FEDE RAGIONE. L’insieme delle dottrine
filosofiche e teologiche elaborate dal Doctor
Angelicus e riprese dai suoi seguaci prenderanno il nome di “tomismo”.
Grandissima fu l’influenza che ebbero nel cattolicesimo ma anche nel pensiero
filosofico.
Il pensiero di san Tommaso d’Aquino abbiamo visto è
incentrato sul rapporto Fede e Ragione e quindi c’è in esso Filosofia e
Teologia. In questo studio di Tommaso, ci interessa in particolar modo
l’aspetto filosofico, cioè l’indagine razionale dei tre grandi temi della
Filosofia: Dio, l’Uomo e il mondo.
Tommaso
parte dal mondo, il più vicino alla nostra comprensione, poi all’interno del
mondo l’Uomo e infine, per capire il mondo e l’Uomo: Dio.
La sua
filosofia è una certa visione dell’Uomo e del mondo, alla luce di una certa
visione di Dio.
Il fine dell’Uomo
La visione dell’Uomo la si capisce dalla dottrina morale di
un filosofo. Ma cos’è la morale? È lo studio delle azioni dell’Uomo, dice
Tommaso. A loro volta le azioni dipendono dal fine. La morale di Tommaso parte
dal discorso del fine. Cioè se partiamo dal fine, cioè da dove vogliamo
arrivare, allora il comportamento dell’Uomo potrà essere giudicato valido per
raggiungere quel fine o non valido per raggiungerlo, ma senza la conoscenza del
fine è impossibile giudicare un comportamento.
Le azioni sono sempre in ordine o in vista di un punto di
arrivo, Tommaso quindi ci dice di partire da qui, dal punto di arrivo cioè dal
fine dell’Uomo. Ma qual è il fine dell’Uomo? La FELICITÀ afferma con decisione
Tommaso.
Il fine dell’uomo è essere felici. Questa scoperta che ha
sollevato gli animi per secoli e oggi, dopo 800 anni, è completamente
abbandonata e ne paghiamo le conseguenze. Oggi caso mai si parla di benessere,
ma di felicità proprio no, lo sentiamo troppo impegnativo e utopico.
La felicità è il fine della vita dell’Uomo. È PREDELIBERATIVO,
cioè è precedente ad ogni decisione. Cioè l’Uomo desidera essere felice, ma
questo non è frutto di una scelta, ma è qualcosa che sta prima, a seguito del
quale scegliamo cosa fare, cosa possedere, cosa pensare per raggiungere questo
obiettivo, la propria felicità.
La Felicità
Qualunque cosa uno cerca, la cerca in quanto vede in quella
cosa un aspetto di bene, almeno un aspetto. Nessuno cerca il male in quanto
male, perfino chi giunge all’estremo atto malvagio che l’uomo può fare, cioè
togliersi la vita, lo fa perché vede nella morte un aspetto di bene. Il male di
per se nessuno lo sceglie. Il suicida vede nella morte una liberazione, un
sollievo, un aspetto di bene che gli fa credere che valga la pena di agire in
quel modo.
La Felicità come fine dell’Uomo è una esigenza universale.
Nessuno può decidere un’altra cosa come fine della propria vita. Questo vale
per tutti gli uomini, di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Ma la ricerca della
Felicità come fine della vita dell’Uomo è FALLIBILE, cioè si può desiderare la
felicità e non raggiungerla mai.
Perché questo? Perché bisogna vedere dove la si cerca,
dice Tommaso. Dove l’Uomo cerca la Felicità?
La felicità può essere
nei beni del corpo?
Cioè nella bellezza, nella salute, nella forza, nella prestanza fisica? No dice
Tommaso perché non tutti possiedono questi beni e già questo esclude che
possano essere dei fini, perché dovrebbero essere accessibili da tutti e non
solo ad una categoria. Oltretutto questi beni comunque ad un certo punto
sfioriscono, degradano. Ma anche se volessimo prendere in considerazione la
salute, come fine, vediamo che nella realtà noi siamo disposti a sacrificarla,
cioè a sacrificare la nostra vita per un’idea o una persona che rappresentano
per noi un bene superiore. Vuol dire cioè che esiste qualcosa di più grande
della salute e quindi questa non può essere la felicità dell’Uomo.
La Felicità può essere nei beni spirituali interiori? Quali sono i beni spirituali
interiori? Sono le azioni dell’Uomo nelle sue dimensioni spirituali:
l’intelletto e l’affettività, quindi il Pensiero e l’Amore (la Cultura e le
Relazioni interpersonali).
Quale deve essere questo oggetto?
La Felicità esige tre cose e da
queste tre cose si capisce qual è l’oggetto proporzionato, cioè adeguato, ad
essere il fine dell’Uomo.
1. TOTALITÀ.
Perché quando noi pensiamo ed amiamo qualche cosa, vogliamo che questo pensiero
la racchiuda tutta e la possieda tutta. Al contempo vogliamo da lei essere conosciuti
totalmente. Quando noi amiamo vogliamo possedere totalmente l’oggetto del
nostro amore ed anche per essere da lui amati totalmente. Quale creatura può
essere posseduta e amata totalmente e al contempo conoscermi ed amarmi
totalmente?
2. COMPLETEZZA.
Noi desideriamo che questa conoscenza, questo amore, con l’oggetto di questa
conoscenza e di questo amore (in andata come in ritorno), desideriamo sia
sempre e per sempre.
3. DEFINITIVITÀ.
Conoscere ed amare l’oggetto della mia conoscenza e del mio amore non solo
durante questa vita, ma per sempre.
Nessuna creatura realizza
perfettamente l’esigenza di conoscere e amare per essere felici in questo
mondo. Dobbiamo raggiungere Dio con la Fede in questa vita e nella gloria
nell’aldilà per poter conoscere e amare, essere conosciuti ed amati, essere
quindi veramente felici.
La legge come via per la Felicità
Ricordiamo che la Scolastica in genere e la Tomistica in
particolare sono il formidabile incontro fra Fede e Ragione. Solo alla luce di
questo si può capire la portata del discorso sulla legge eterna. Noi abbiamo la
fortuna di vivere in una cultura radicata nella tradizione, nella filosofia e
teologia cristiana, come Benedetto XVI sottolineò nell’importantissimo, contestatissimo
e strumentalizzato discorso di Ratisbona nel quale disse che il fondamentale
problema della cultura islamica è quella di non conoscere la legge eterna, di
non conoscere la legge naturale, ma solo la legge positiva.
Ci sono cioè delle cose che non sono io a decidere che mi
facciano bene o male. Ci sono delle cose che mi fanno bene e delle cose che mi
fanno male per natura. Questo rispecchia il progetto di Dio che mi ha fatto
come mi ha fatto. Questo vale a livello fisico, ma vale anche a livello morale,
cioè a livello dell’organismo spirituale dell’Uomo. Ci sono delle cose che mi
fanno male e mi distruggono, mi impoveriscono, mi isolano, mi rendono triste o
addirittura cattivo e quindi mi rendono infelice. Ci sono altre cose che invece
mi fanno bene, mi arricchiscono, mi potenziano, mi perfezionano, mi aprono. Le
prime le chiamo Male, le seconde le chiamo Bene. Il male si chiama male perché
mi fa male, il bene si chiama bene perché mi fa bene. La natura umana rispetta
il progetto del Creatore.
La legge eterna è il
piano con il quale Dio come re dell’universo e creatore ha fatto e governa le
cose. Questo si rispecchia nella legge naturale, cioè nel meccanismo in cui è
fatto l’Uomo.
La legge naturale. C’è una
legge fisica che governa il mondo, gli astri, gli animali, ecc.
La legge positiva si distingue poi in civile ed
ecclesiastica. Civile se regola la vita sociale dell’una o dell’altra comunità
umana.
La Coscienza
L’obiettivo dell’Uomo è la Felicità. La felicità si
raggiunge conoscendo ed amando Dio e sentendoci conosciuti e amati da Lui in
questa vita e nell’eternità (cioè sempre). La via alla Felicità, cioè conoscere
ed amare Dio in modo adeguato è la legge, cioè vivere secondo le esigenze e le
potenzialità della nostra natura conformemente al progetto di Dio. Ma io dove
la scopro o come la sento o come la applico la legge di Dio? Ci vuole la
Coscienza. La Coscienza è la legge interiorizzata, è la scoperta dentro di me
di ciò che è adeguato al progetto di Dio. La Coscienza la debbo scoprire, non
creare. Debbo cioè scoprire come sono stato fatto da Dio, non decidere io cosa
per me è male o bene, che in sostanza è il peccato originale (sarai come Dio, cioè deciderai tu cosa è
bene e cosa è male). L’Uomo è creatura, non può farsi da solo, ma si trova
già fatto e fatto in un certo modo. In un modo che certe cose gli fanno bene e
altre gli fanno male. Un motore Diesel è fatto per funzionare con il Gasolio,
se io gli metto della Benzina lo danneggio.
La coscienza è vincolante anche quando è erronea. Se
sono convinto che una cosa è giusta io, per come sono fatto, debbo farla. E qui
nasce l’esigenza di formare la propria coscienza, per infondere in essa la
legge di Dio, ovvero per sintonizzarla con il progetto di Dio. Praticamente
questa formazione avviene automaticamente e naturalmente fin dall’infanzia in
Famiglia nei casi normali (educazione familiare). Per altri sarà lo sbattere il
naso contro fini che apparentemente mi conducono alla Felicità e che poi
verifico essere errati e infelici e che mi dovrebbero portare a ricercare fini
della mia vita sempre più adeguati al mio bisogno di felicità vera che
dovrebbero con l’aiuto di Dio (normalmente attraverso delle testimonianze
positive) portare a poco a poco ad incontrare l’amore di Dio e al bisogno di
conformarmi alla sua legge d’Amore. Qui entriamo nel discorso sempre complesso
del libero arbitrio e della libertà di scelta del bene o del male, cioè della
responsabilità individuale in merito. Resta il fatto che appare chiaro che Dio
vuole che ciascuno di noi sia aiutato e dipenda da altri uomini nella fede come
nella ragione (genitori, educatori, sacerdoti, testimoni di fede e di buon senso). Da qui la grande
responsabilità da parte di chi è stato ben guidato di prestarsi ad aiutare chi
non ha avuto questa fortuna (meglio dire Grazia). L’animale ha l’istinto che lo
guida, cioè i binari su cui andare per sopravvivere e conservare la specie. L’Uomo
ha la Coscienza che perè ha bisogno di altri uomini per formarla secondo il
disegno di Dio e stare su questi binari.
I mezzi per
raggiungere i fini: le virtù.
Qual è il passaggio dall’atto all’abito? L’atto è una cosa
che io faccio una volta, ma quando la faccio più volte diventa sempre meno
difficile e faticosa e sempre più naturale e perfezionata. Anzi mi diventa una
cosa fatta con gioia e soddisfazione. Tommaso fa l’esempio dello scrivere,
all’inizio è una cosa difficile e impegnativa e spesso addirittura
scoraggiante, ma una volta che abbiamo preso la mano diventiamo più abili e
veloci e diventa tutto più facile. Oggi potremmo fare l’esempio della guida di
un’auto, all’inizio è fonte di ansie e preoccupazioni, ma poi una volta presa
la mano diventa così automatica che per molti la guida è anche un piacere.
Per le cattive abitudini Tommaso ci dice che qui è più facile
e semplice passare velocemente dall’atto all’abito, non richiede un grande
sforzo, ma lo sforzo diventa enorme se vogliamo tirarcene fuori.
La filosofia morale di san Tommaso d’Aquino ha come obiettivo
la Felicità, la Felicità ha come strada la legge, la legge è interiorizzata
dalla coscienza e si realizza nella nostra vita attraverso l’esercizio delle
virtù e la lotta contro il vizio.
LA POLITICA
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La Politica dai Presofisti ad Aristotele
San Tommaso d’Aquino
è il filosofo dell’essere. Esiste la realtà. Questa realtà è penetrabile dalla
mia ragione. La mia ragione riconosce che la realtà esiste indipendentemente
dal pensiero, che non la crea, e legge nella realtà la legge naturale che
rispecchia quella di Dio.
Oggi invece si parla sempre più spesso di autonomia, autonomia deriva dal greco antico autènomos, (parola composta da αὐτο-, auto- e νόμος, nomos, "legge", ovvero "legge propria", “legge per se stessa”) si intende la possibilità per un soggetto di svolgere le proprie funzioni senza ingerenze o condizionamenti da parte di terzi.
La ragione moderna ha una visione politica completamente
diversa da quella degli autori fin qui trattati. Questo perché la ragione
moderna (dopo il medioevo) assimila il problema politico alla storia e al
tempo. Dal 1789 (rivoluzione francese) noi usiamo nella politica aggettivi che
fanno riferimento alla dimensione temporale, non alla dimensione della verità
oggettiva delle cose. Uno dei termini più usati in politica è progressista o conservatore, cosa che fa
capire che non ci riferiamo ad un dato oggettivo ma ad un dato temporale, dopo
qualcosa che è stato (progressista) o
prima di qualcosa che è stato (conservatore).
Oppure avanzati o arretrati, ma rispetto
a che cosa? Rivoluzionario o reazionario.
Rivoluzionario che vuole cambiare le
cose (che sempre più spesso si sono dimostrate peggiori delle precedenti) o
reazionario che reagisce o fa resistenza al cambiamento e ostacola il progresso
(ma progresso o progredire verso che cosa?).
Per trattare il pensiero politico di san Tommaso partiamo da
lontano, vediamo prima il problema politico dalle origini del pensiero al
medioevo. Per fare questo ci appoggiamo ad un autore del ‘900, Karl Popper che
nel 1945 scrisse la sua opera più
conosciuta “La Società aperta e i suoi nemici” (Armando editore 2004).
Per Popper la Società aperta è quella società che non
individua nessun criterio assoluto con il quale organizzare la vita politica.
Cioè non riduce a nessun principio assoluto l’azione politica. Anzi il fare
riferimento ad un principio assoluto viene chiamato con tonalità negative
“riduzionismo”. La società è aperta perché ognuno ha la sua visione delle cose,
una sorta di liberalismo democratico. Ricordiamo che siamo appena usciti da una
guerra contro regimi totalitari, ma con uno di questi, quello comunista, che
troviamo invece intorno al tavolo dei vincitori.
Popper affronta dapprima il tema della politica nell’antica
Grecia. I presofisti per esempio non si occupano di politica, il loro interesse
è tutto concentrato sulla cosmologia, loro cercavano l’Archè, il principio e
l’origine delle cose, la physis era
la natura, il tutto omnicomprensivo.
Sono poi i Sofisti che vivono nella Polis democratica (da cui la parola politica) nell’epoca di Pericle che invece si occupano proprio di politica.
Protagora è visto da Popper come uno degli
anticipatori del liberalismo odierno, dice infatti che “l’uomo è la misura di
tutte le cose”. Cioè l’Uomo è nomos o
legge di se stesso che si differenzia dalla physis
o legge della natura. I Sofisti infatti mettono una barriera tra il
pensiero e la realtà (mentre
i presofisti partivano dalla realtà per cercare di capirla). In altre parole i
sofisti affermano che “nessuno ha la verità in tasca” e la dimensione
religiosa, se uno ce l’ha è una cosa interiore tutta sua e guai farla entrare
nella sfera politica e imporla agli altri. Non c’è una Verità assoluta, la
Verità se c’è è irraggiungibile e sarebbe inoltre difficile o addirittura
impossibile spiegarla e comprenderla, quindi tanto vale abbandonarla e cercare
come punto di riferimento l’utilità comune per il momento che viviamo. Ne
consegue che Protagora è un amico della Società aperta.
Gorgia
invece, molto più radicale di Protagora è di fatto un nichilista, afferma
addirittura che nulla esiste. Presa
questa affermazione come la Verità, diventa un assoluto, un criterio di
riferimento che si impone e diventa nemico della Società aperta (che è chiusa
ad ogni forma di assoluto). Quindi individuando Gorgia un criterio (nulla
esiste) a cui la politica potrebbe far riferimento, questi è giudicato un
pericolo della Società aperta. Gorgia cioè di fatto individua un criterio
assoluto (una verità) e riduce tutta la vita dell’uomo a quel criterio.
Per i Sofisti la Verità non esiste. Non
esiste nulla di assoluto. Se non c’è verità, se le cose non le posso conoscere
e non sono testimoni delle mie idee, con un adeguato linguaggio posso dire
tutto quello che voglio e convincere su qualunque argomento e sostenere il
giorno dopo anche il contrario di quello che ho detto il giorno prima. Chi
meglio parla domina.
È il linguaggio che così diventa
onnipotente, esso si sostituisce alla Verità, perché Verità, o principio di
riferimento, diventa l’abilità oratoria e la capacità di convincimento. A
tutt’oggi, politici, attori, manager, presentatori Tv, ecc. fanno corsi di
oratoria per diventare più credibili e allontanare la voglia di indagare e
verificare la validità di ciò che dicono. Chi poi usa al meglio la sua capacità
comunicativa per far emergere la Verità viene fatto annegare in mezzo a mille
altre verità o viene attaccato sul fronte morale per ficcarne la credibilità.
Socrate è famoso per aver obbedito alla
legge anche se ingiusta rifiutando la possibilità di fuga offertagli. E Popper
lo vede come un amico della Società aperta perché legge in lui il primato della
coscienza. Apprezza inoltre la sua affermazione del vero come universale, ma
però in continua ricerca: “una vita senza ricerca non è degna di essere
vissuta”. In altre parole non impone un assoluto, lo auspica e lo ricerca,
quindi di fatto rimane aperto a valutare diverse possibilità.
Platone invece è considerato il peggior
nemico della Società aperta perché nella sua opera La Repubblica, Platone vede
come riferimento politico assoluto, una verità assoluta e trascendente, il Bene
(il bene comune) e che questo bene è conosciuto dai filosofi e che quindi
questi sono i soli in grado di governare proprio per questa loro visione che
gli altri non hanno. Gli altri hanno altre qualità che saranno poi utili per la
produzione, per la guerra, ecc. Inoltre l’idea platonica di scaricare la classe governante dalle
responsabilità dell’educazione dei figli e della Famiglia o dalla gestione
delle proprie proprietà per dedicarsi al governo della città, lasciando quindi
allo stato l’educazione dei figli e la gestione delle proprietà comuni, fanno
condannare Platone a nemico della Società aperta e della autonomia della
Famiglia e dei suoi rapporti sociali, come l’autonomia dei vari gruppi sociali
spontanei.
Aristotele considera
l’Uomo un animale socievole, cioè che vive naturalmente in società e si
organizza in essa, in famiglie e in gruppi sociali spontanei e autonomi, ecc. e
quindi è considerato amico della Società aperta.
La Politica nel Medioevo
Dopo Aristotele e per l’avvento dell’impero macedone di
Alessandro magno, le polis si
spengono e anche la politica non è più occasione di dibattito o di interesse
pubblico. Le nuove scuole ellenistiche si concentrano sull’individuo e non più
sulla polis e si preoccupano di indicare agli studenti vie per la propria
felicità personale piuttosto che per organizzare la società.
Per quanto riguarda i temi della politica dobbiamo saltare
decisamente al Medioevo.
Sant’Isidoro da Siviglia
Iniziamo da Sant’Isidoro di Siviglia (Dottore della chiesa e che fu vescovo della città spagnola durante il dominio dei
Visigoti e prominente esponente del mondo culturale suo contemporaneo) che scrive le “Etimologie” proprio
nel momento che l’Impero Romano è crollato e non c’è più un potere politico.
Egli si sofferma sull’etimologia della parola REX che deriva da REGERE e da
RECTE. REGERE: governare e RECTE: rettamente. Cioè il Re deve governare secondo
quello che poi san Tommaso chiamerà la legge eterna, quella che è inscritta
nella natura. Il Re deve governare secondo verità e giustizia e per il vero
bene comune, il suo potere è dato da questo. Deve quindi conoscere come è fatto
l’uomo, come Dio lo ha concepito e in cosa consiste il suo bene.
Sant’Agostino
Sant’Agostino nella sua opera “de civitate dei” afferma che l’assoluto è intrascrivibile. Cioè
non può esistere un governo che possa essere modello assoluto ed eterno, come
si pensava potesse essere l’impero romano, che già con Agostino dava segni di
disfacimento. Agostino infatti scrive per difendere i cristiani accusati di
essere la causa del crollo imminente dell’Impero, e li difende dicendo che è
impossibile che qualcosa di questo mondo possa essere assoluto ed eterno o
specchio dell’assoluto.
Papa Gelasio I
Interessante è a questo punto esaminare quanto asserisce Papa
Gelasio I del V secolo, testimone oculare del crollo
dell’Impero romano (476). Egli vede la necessità di una netta separazione fra
potere temporale del Sovrano o dell’Imperatore che regge o governa o impera e
il potere spirituale della Chiesa (del Papa e dei Principi della Chiesa) che è
prettamente spirituale.
Questa separazione però non va vista come due enti distinti,
separati, ma sullo stesso piano. Vanno visti in una situazione di
subordinazione del potere temporale a quello spirituale. Questo perché gli
uomini tutti, dal sovrano all’ultimo contadino, rendono conto a Dio attraverso
la mediazione degli uomini di Chiesa. La supremazia della sfera spirituale su
quella materiale è quindi conseguenza del rapporto fra Dio e gli uomini,
rapporto che Dio ha voluto sia gestito attraverso un ponte fra Lui e gli uomini
rappresentato da Pietro e i suoi
successori che per questo si chiamano Pontefici. Il potere temporale è quindi
giudicato da quello spirituale. Questa cosa disturberà spesso Sovrani e
Governanti oppure all’opposto sarà usata per auspicare governi teocratici.
La scuola di Chartres fu una scuola
cattedrale di studi universitari filosofici e teologici sorta
alla fine del X
secolo a Chartres per
iniziativa di Fulberto, vescovo di Chartres,
e proseguita fino al secolo
successivo, avendo come programma lo sviluppo della teologia cristiana mediante
l'utilizzo della Filosofia platonica.
Si trattava di uno dei più grandi istituti appartenenti al sistema educativo
della scolastica medievale.
I filosofi di Chartres assimilarono la dottrina di Platone attraverso il
pensiero neoplatonico di Agostino d'Ippona e
di Severino Boezio. Vi insegnò Giovanni di
Salisbury
che nel suo Polycraticus afferma la derivazione del potere temporale da quello
papale e che la legge dello stato fonda la sua validità morale sull'equità: se il
principe non rispetta il principio etico dell'equità i sudditi sono in diritto
di ribellarsi e di liberarsi del tiranno anche con la sua uccisione.
Questa sua opera fa parte degli Specula principium, cioè lo specchio dei principi, una sorta di
manuale di comportamento per principi e regnanti.
La politica nel secolo di san Tommaso
La storia del XIII secolo
in cui vive Tommaso d’Aquino è segnata dallo scontro fra il Papato e il Sacro
Romano Impero che aspirano entrambi alla supremazia politica universale. La
lotta fra i due principali poteri politici dell’epoca in Italia viene resa più
complicata dall’ascesa dei comuni che lottano per la difesa della propria
autonomia.
L’Imperatore Federico primo di Svevia, detto il Barbarossa,
guida più volte il suo esercito contro la Lega dei Comuni, la Lega Lombarda che
alla fine lo sconfigge nella battaglia di Legnano. Viene firmata così la pace
di Costanza nel 1183 con la quale l’Imperatore si impegna a rispettare
l’indipendenza dei comuni italiani.
Nel frattempo anche il sacro romano impero va incontro ad una
lenta crisi. Al tempo in cui Tommaso nasce e compie i suoi studi siede sul
trono imperiale Federico II , nipote del Barbarossa, che opera in Italia
ponendo la propria corte in Sicilia. Presto anche Federico II entra in urto con il Papato che mira ad
arginare la potenza della casa imperiale tedesca. Scoppia quindi una guerra che
dura fino alla morte di Federico II nel
1250. Mentre si protrae il conflitto fra Chiesa e Impero, il consolidarsi delle
monarchie nazionali e l’affermarsi delle autonomie locali mettono profondamente
in crisi le due istituzioni e con loro i sogni di supremazia universale che
avevano dominato il Medioevo. Concludiamo dicendo che l’Impero e la Chiesa si
sentono entrambi strutture Universali e non strutture Particolari.
Il Medioevo è quindi l’epoca di due Universalismi, l’Impero e
la Chiesa che si considerano entrambi universali ma con il concetto che è il
Papa che incorona re e imperatori legittimandone così l’autorità e la dovuta
obbedienza dei sudditi (dovuta solo se governati bene) a partire
dall’incoronazione di Carlo Magno (Defensor
Ecclesie) nel Natale dell’800 che garantiva la gestione dell’Impero secondo
giustizia e verità. Per morire poi con Napoleone la cui incoronazione avviene
ancora con la presenza del Papa, cioè c’è ancora una bisogno di legittimazione,
ma l’incoronazione se la fa da solo
Napoleone stesso. Poi con l’avvento della Repubblica e di Re ed Imperatori che
non riconoscono più l’autorità della Chiesa, anzi sempre più spesso la
combattono o la dividono in Chiese locali. L’universalità della Chiesa è sempre
più messa in discussione ma anche quella dei regnanti e governanti è sempre più
soggetta a ribellioni e a guerre di potere e di dominio sulle popolazioni senza
una autorità morale che ne moderi le ambizioni e le violenze.
La concezione politica di San Tommaso
Nei confronti del problema politico Tommaso parte da due presupposti,
che egli considera assodati: il valore positivo della società umana; la
dipendenza dello Stato dalla Chiesa. Tommaso non ha difficoltà ad ammettere
l'autonomia del diritto naturale, fondato sulla ragione, rispetto al magistero
ecclesiastico. Quello che gli preme di dimostrare è la razionalità della
soggezione dello Stato alla Chiesa. Il ragionamento di Tommaso è semplice:
Cristo è il signore di tutti gli uomini e il papa è il suo vicario in terra.
Quindi il papa è signore di tutti gli uomini, compresi re e imperatori. A
questo argomento generale il filosofo ne aggiunge un altro di natura
particolare: il papa ha la cura del fine ultimo di tutti gli uomini; re e
imperatori curano invece solo fini intermedi (ordine della convivenza,
benessere generale, ecc.). I fini particolari sono subordinati al fine ultimo,
quindi re e imperatori devono essere sottomessi al papa.
Se la legge degli
uomini non rispecchia più la legge naturale, che rispecchia a sua volta la
legge eterna, nasce la tirannia. Tommaso quindi giustifica la ribellione ad un
potere politico che non rispetta più la legge
naturale e che elabora una
propria visione del mondo e la impone a tutti. Purché però questa ribellione
non comporti un danno maggiore per i sudditi. Ieri come oggi quando la legge
naturale non è rispettata da chi ha la sovranità di un popolo e impone una
propria legge, i sudditi vivono male e tendono a ribellarsi. La ribellione poi
rischia di peggiorare le cose e imporre un tiranno peggiore del primo con alto
numero di vittime innocenti ( vedi le rivoluzioni passate e quelle in atto). Anche questa è una dimostrazione del realismo di San
Tommaso che aggiunge che anche la così detta “guerra giusta” cioè quella fatta
non per attaccare, ma per difendersi, è giusta solo se c’è una fondata (reale)
speranza di vittoria. Il che vuol dire che se la guerra giusta è causa della
distruzione di una popolazione, non può più dirsi giusta.
Approfondimenti
La Politica di Aristotele era stata completata da Guglielmo
di Moerbeke e nel 1270 Tommaso ne intraprende lo studio e l' analisi
arrestandosi al secondo libro. Diversamente dalla tradizione agostiniana,
Tommaso non pensa che lo Stato sia una condizione necessaria per tenere a freno
l' uomo dopo la caduta nel peccato. Per Tommaso, invece, il peccato originale
non ha corrotto completamente la natura umana, anzi egli condivide con
Aristotele la tesi che sia costruttivo della natura dell' uomo l' essere un
animale politico o socievole. Alla società politica ( civitas ), o alla persona che ha cura di
essa, spetta il compito di ordinare le leggi, le quali hanno come proprio fine
il bene comune. La politica è la scienza concernente gli strumenti necessari
per realizzare il bene più alto nell' ambito delle cose umane. Esso è il bene comune,
in quanto ogni uomo è per natura parte della comunità e non può, sul
piano delle cose umane, raggiungere il proprio bene se non come bene anche
della comunità . La forma di governo che meglio consente di raggiungere
questo obiettivo è per Tommaso la monarchia. Essa infatti, come governo di uno
solo, garantisce meglio l' ordine e l' unità dello Stato: essa è la forma
che più assomiglia al governo divino del mondo. Le leggi stabilite dalla civitas, o dal principe in suo nome,
sono leggi umane. La validità e la bontà di esse dipende dalla loro
conformità alla legge naturale. La nozione di legge naturale proviene a
Tommaso da un' antica tradizione di origine stoica, confluita negli scritti
politici di Cicerone e nello stesso diritto romano. Essa consiste nell'
inclinazione al bene naturale comune a ogni creatura, in primis all'
autoconservazione, e agli atti insegnati dalla natura stessa, come l'unione di
maschio e femmina e l'allevamento dei figli. Ma nel caso dell'uomo, avente
natura razionale, essa consiste anche nell'inclinazione ai fini propri della
natura razionale, come il vivere in società , la conoscenza della
verità , ecc. Le leggi umane o positive derivano dalla legge naturale e
consistono nella determinazione particolare delle cose alle quali si riferisce
la legge naturale. Una legge positiva che non si conformi alla legge naturale
non è per Tommaso una vera e propria legge, ma soltanto un'imposizione
arbitraria, che non può legittimamente pretendere obbedienza: “Quando una legge
è ingiusta, disobbedire è un dovere”, può tranquillamente affermare Tommaso. Il
fondamento della legge eterna è la ragione divina che governa tutte le cose.
Rispetto ad essa Tommaso distingue la legge divina propriamente detta, la quale
è necessaria per indirizzare l' uomo al suo fine soprannaturale, ossia alla
beatitudine eterna. Mentre la legge eterna e, di conseguenza, la legge naturale
che ne partecipa, può essere conosciuta dalla ragione umana, la legge divina può
essere conosciuta soltanto grazie alla rivelazione da parte di Dio stesso. Lo
stato può perseguire soltanto il bene comune nell' ambito delle cose umane e su
questo piano esso è dotato di autonomia, cosicché anche le organizzazioni
statali di non cristiani hanno legittimità . Però lo Stato non è di per sé
in grado di orientare verso il superiore fine soprannaturale dell' uomo, al
quale mira invece la Chiesa fondata da Dio stesso. La conseguenza è che il
governo politico deve subordinarsi al governo religioso, proprio di Cristo e da
lui affidato al suo vicario in terra, il Papa. Per Tommaso si tratta di una
supremazia spirituale del papa rispetto a tutti i re della terra. Sarà
invece Tolomeo di Lucca, nelle sue aggiunte al De regimine principum, lasciato incompiuto da Tommaso, a
interpretare in senso teocratico la dottrina di Tommaso, come supremazia del
potere del papa anche nelle cose temporali.
De Monarchia
È
un trattato in prosa latina di argomento storico-politico, in tre libri,
scritto da Dante probabilmente nel 1310-1313. Il tema affrontato è la necessità
di una monarchia universale, che unifichi sotto il suo dominio tutta l'Europa.
I libro
Dante sostiene la necessità,
storica e filosofica, della monarchia universale, ovvero di un dominio politico
che unifichi sotto di sé tutto il mondo cristiano: questa istituzione ha come
fine principale quello di assicurare il rispetto delle leggi e, quindi,
assicurare la giustizia nel mondo, condizione indispensabile affinché gli
uomini raggiungano la felicità terrena col possesso delle quattro virtù
cardinali. Dante individua come ostacolo a tale raggiungimento la cupidigia dei
beni terreni, che distolgono l'uomo dal perseguimento della virtù, quindi
attribuisce al monarca universale il compito di frenare l'avarizia degli uomini
attraverso lo strumento della legge. La necessità della monarchia universale si
spiega anche col bisogno, connaturato negli uomini, di un'unica guida che li
orienti alla conoscenza e alla condotta moralmente corretta, cosa che si è già
storicamente verificata durante l'Impero di Augusto che assicurò al mondo romano la pace.
II libro
Ha
un argomento più prettamente storico, in quanto Dante si sofferma sul carattere
provvidenziale dell'Impero romano, voluto da Dio per assicurare una condizione
di pace e stabilità al mondo e unificare i popoli in un'unica legge, così da
preparare l'umanità alla nascita di Gesù. Altrettanto ha fatto poi il Sacro
Romano Impero che dell'Impero di Roma antica è legittimo erede.
III libro
È
dedicato alla spinosa questione dei rapporti tra Chiesa e Impero, assai
dibattuta al tempo di Dante. L'autore confuta entrambe le tesi che allora si
contrapponevano, ovvero quella filoimperiale che sosteneva la supremazia
dell'imperatore sul papa e quella filopapale, che sosteneva l'opposto e cioè
che l'autorità imperiale dipendeva non da Dio bensì dal papa (era la cosiddetta
teoria «del sole e della luna»). Con argomenti storici e filosofici Dante
afferma che i due poteri, quello spirituale e temporale, devono essere distinti
e autonomi, in quanto destinati a scopi del tutto diversi: fine dell'imperatore
è di condurre gli uomini alla felicità terrena attraverso la giustizia e il
rispetto delle leggi, mentre quello del papa è di condurre gli uomini alla
felicità eterna attraverso il magistero della fede e l'insegnamento dei
principi dottrinali. Nulla è quindi l'autorità temporale del papa, poiché non
ha valore ed è da condannare la famosa donazione di Costantino che Dante
riteneva autentica, mentre il potere dell'imperatore deriva non dal papa ma
direttamente da Dio. I due poteri sono dunque reciprocamente autonomi e
indipendenti l'uno dall'altro, anche se il sovrano deve al papa una sorta di
rispettosa deferenza come riguardo alla maggiore importanza della sua carica,
proprio come un figlio deve rispetto al padre.
L’Uomo a tre dimensioni
Il
concetto di politica di Dante deriva dai trascendentali VERUM, BONUM, PULCRUM,
cioè dalle perfezioni dell’essere, quelle che caratterizzano l’essere e quindi
anche l’uomo, l’essere per eccellenza. Verum,
perché l’essere è la verità di se stesso, Bonum,
perché è buono, cioè corrisponde alla propria natura, alla propria finalità, Pulcrum, perché quando un essere è
unico, vero e buono è in estrema sintesi puro, bello e ben definito. Questi
sono i trascendentali che
definiscono l’uomo a tre dimensioni, concetto ben chiaro agli uomini del
medioevo e usato da Dante nella sua Commedia. Infatti in essa vi è la visione
dell’uomo in tre dimensioni, quella che riguarda il suo problema Religioso (legato al Destino), quella
che riguarda il suo problema dell’Affettività
(legato alla propria Vocazione) e il suo problema Politico (legato a come ciascuno è utile al bene comune). Questo
concetto dell’uomo a tre dimensioni lo troviamo anche nel Catechismo di Pio X,
che i nostri padri e nonni mandavano a memoria, alla domanda “perché Dio ci ha creati?” il catechismo
risponde: “per conoscerlo, per amarlo e
per servirlo”. Conoscerlo
(Verum) problema religioso, Amarlo
(Bonum) problema affettivo, Servirlo
(pulcrum) problema politico, cioè prendersi cura del creato (così bello),
prendersi la responsabilità di realizzare il regno di Dio già su questa terra,
rendere le proprie azioni di utilità per il bene comune, fare la cosa giusta,
continuare la creazione (la vera finalità della Politica). Gesù infatti si è
definito Verità (Verum), Vita (Bonum), Via (Pulcrum) che corrisponde alle tre virtù teologali Fede (Verità), Carità (Vita), Speranza
(Via) nella possibilità di costruire il Regno di Dio già su questa terra, per
goderlo poi in Paradiso. Ma a questo punto si evidenzia la Trinità divina: Fede,
il Padre, Carità, lo Spirito Santo, Speranza, il Figlio. Da qui il forte coinvolgimento
di Dante nella politica (cioè usare la vita per realizzare una buona politica)
e l’amara constatazione che essa finisce sempre nella mani dei più potenti e
prepotenti che privilegiano la propria utilità a quella del bene comune.
Le
tre dimensioni positive dell’uomo hanno il loro contrario nei peccati capitali,
che Dante tratta nell’Inferno e nel Purgatorio. Il Potere, la Lussuria e l’Usura (che intende il dio danaro). La Morale Cristiana si contrappone a
questi peccati con l’Umiltà, cioè
l’Obbedienza a Dio e ai suoi disegni (il rapporto con il mistero), la Castità, il corretto uso del proprio
corpo (il rapporto con il corpo proprio e altrui) e la Povertà che tiene lontano dalla schiavitù dell’Egoismo, del Potere
e del Danaro (il rapporto con il mondo, cioè la Politica). Dante tratta il
peccato come tradimento della propria natura di uomini liberi, amati da Dio e
fatti a sua immagine e somiglianza, destinati alla felicità con l’aiuto della
Morale Cristiana (sintesi della rivelazione divina) che ci indica con chiarezza
cos’è il bene comune e la buona Politica. (Estratto
e sintetizzato da una conferenza su Dante del Prof. Franco Nembrini)
La politica in Guglielmo d’Ockhman
Guglielmo,
nella disputa tra Papa, Imperatore e i nuovi poteri delle monarchie nazionali e
delle città, che si ponevano spesso allo stesso livello dei poteri
"universalistici" del Papa e dell’Imperatore, si oppose alle tesi ierocratiche di Bonifacio
VIII ( ierocrazia dal greco letteralmente potere dei sacri, che indica
una forma di governo in mano a persone che incarnano la divinità, come i
sacerdoti). Secondo Guglielmo autorità religiosa e civile dovevano essere nettamente
separate perché finalizzate a scopi diversi, così come diversi erano i campi
della fede e della ragione.
Guglielmo fu comunque influenzato dall’amico Marsilio da Padova, avverso al potere temporale della Chiesa, e che assieme a lui
subì l'esilio, e che sosteneva che il potere di comandare su tutte le altre parti, è un
potere delegato, esercitato in nome della volontà popolare. La conseguenza di
questo principio era che l'autorità politica non discendeva da Dio o
dal papa, ma dal popolo. Ockhman è convinto dell'indipendenza di fede e
ragione e porta alle estreme conseguenze quella linea di pensiero che aveva già
perseguito Duns
Scoto. Ovvero le verità di fede non sono per nulla evidenti e la ragione non
le può indagare. Solo la fede, dono gratuito di Dio, può illuminarle.
Programma
della seconda Tappa:
I Lumi del Medioevo
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