giovedì 27 aprile 2017

2t-4-Dalla Patristica alla Scolastica

Le slides e la Dispensa

































La Scolastica

 
L’epoca della Patristica è stata l’epoca della costruzione della società e quindi della civiltà cristiana medioevale che poi durerà per il millennio seguente fino a circa la scoperta dell’America 1492.
La fine della Patristica non è una archiviazione di quanto in essa è successo, ma è l’inizio di un importante, solenne e corposo millennio di cultura, di civiltà, di progresso al centro del quale c’è preponderante la dimensione umana e quindi religiosa dell’uomo. È questo aspetto che darà fastidio ai detentori del potere economico e culturale successivo, che farà di tutto per oscurare quanto di positivo  c’è stato in questo periodo definendolo “Medioevo”, cioè periodo di mezzo fra la cultura classica e il Rinascimento e come un intervallo insignificante e oscuro che ha bloccato per secoli, “i secoli bui” per l’appunto,  lo sviluppo del pensiero umano e della cultura occidentale.
Questo passaggio dall’epoca Patristica al Medioevo ha come agente propulsore un impianto culturale, filosofico, teologico e scientifico: la Scolastica.



La Patristica sfocia nella Scolastica intorno al V /VI  sec. e sarà la base che permetterà alla Scolastica di sviluppare una società e una civiltà cristiana che durerà un millennio, cioè tutto il Medioevo. Questa dimensione religiosa sarà da un lato occasione di grande crescita e dall’altra causa di feroce opposizione da chi vedrà in essa un ostacolo alla piena libertà dell’uomo (senza responsabilità) e all’esercizio del  potere sui più deboli.
La parola Scolastica deriva da Scuola, realtà che non esiste all’inizio di questo periodo. Fino ad ora si conoscono solo piccoli e riservati gruppi di apprendisti, allievi di qualche maestro d’arte o di filosofi. Piccole élite molto particolari e poco presenti nel mondo conosciuto e centrate su di un Maestro che è maestro di tutto lo scibile e al quale gli allievi si affidano totalmente e imparano solo da lui.

Le Scuole Monastiche

Con l’avvento del Medioevo nascono i Monasteri, che oltre a essere centri di preghiera e di culto diventano anche importanti centri di cultura non solo religiosa, ma di tutto lo scibile allora conosciuto. In essi si sviluppano quindi delle Scuole. Le Scuole Monastiche tenute dai Monaci.
Queste Scuole erano già previste nella regola di san Benedetto di alcuni secoli prima che raccomandava che ci si preoccupasse della formazione dei giovani. All’inizio del Medioevo i  Monasteri erano molto isolati dal mondo e spesso in zone impervie e da bonificare. Intorno ad essi però si svilupparono col tempo villaggi di contadini e artigiani che formarono comunità legate ai monasteri e alle loro attività. I Monaci sentirono loro dovere dedicarsi anche all’insegnamento e ad organizzare Scuole, le Scuole Monastiche.

Le Scuole Cattedrali

Nelle grandi città, ma anche in alcune meno grandi, nacquero le Cattedrali e pure in esse si svilupparono Scuole tenute dai preti: le Scuole Cattedrali.

Le Università

Quando i giovani diventano adulti si aprono per loro le Università, anch’esse frutto dell’interesse per la teologia, la filosofia e la scienza. Istituzione completamente sconosciuta nell’antichità e caratteristica invece di questo periodo. Le Università, come le Scuole, nate per l’amore per  il sapere ( non solo teologico e filosofico), da uomini di Chiesa, saranno presenti per sempre nell’occidente cristiano e non cristiano.
La Scolastica è l’insieme delle discipline che vengono trasmesse in una Scuola e in una Università, ciascuno da Docenti specializzati in una propria disciplina a dai relativi Discenti.

La cura degli infermi

Con il monachesimo nacque anche la cura degli infermi organizzata come attività istituzionale. Essa rispondeva in particolare alla quinta opera di misericordia corporale che era comunque sempre stata al centro dell’attenzione della cristianità. Questo grazie allo sviluppo della farmacopea generata dalla ricerca assidua dei monaci tramite lo studio della botanica. Le prime infermierie o ambulatori e i primi lebbrosari che sorgevano accanto a monasteri e conventi, e i primi ospedali nacquero in seno agli ordini religiosi. Tutt’oggi possiamo vedere la croce su farmacie, ambulanze e simboli di ospedali. La stessa Croce Rossa, anche se inventata da un massone, ha nome e simbolo della croce. Nella parabola del buon samaritano Gesù indica la cura degli infermi come condizione per ereditare la vita eterna (Lc 10). Il monachesimo è stata  anche l’occasione per mettere le basi della ricerca scientifica e delle scienze mediche, farmaceutiche, infermieristiche, dell’erboristeria, ecc.
Ricordiamo che le opere di misericordia sono una modalità tipicamente cristiana per diffondere la “buona novella” agli assistiti, come agli assistenti, con le opere fatte per amore, per amore di Dio e di conseguenza per amore del prossimo di cui siamo responsabili una volta battezzati. È la nostra “mission” quella per la quale siamo al mondo (sempre che sia accettata liberamente). Va comunque anche detto che col tempo gli Stati sempre più atei o laici come vengono oggi definiti, si sono impossessati con leggi apposite di molte di queste opere: scuole, università, ospedali, ecc. e sono sorte molte iniziative laiche di aiuto che si preoccupano di risolvere i bisogni dei più deboli. Molte di queste però, il cristiano è giusto che lo sappia, sono nate per pura filantropia, non sono cioè alimentate da un vero amore per Dio e per il prossimo, ma perseguono scopi benefici con altri obbiettivi, specialmente le più note e le meglio pubblicizzate e finanziate con denaro degli ignari contribuenti.
Alcuni esempi. La più nota e reclamizzata Unicef, nata nel 1946 per aiutare i bambini vittime della seconda guerra mondiale, premiata con il premio Nobel nel 1965, ha fra i suoi fondatori importanti personaggi della massoneria, gode di ingenti sostegni economici di molti stati  e mescola insieme a opere lodevoli anche iniziative di controllo delle nascite e di educazione sessuale moralmente e cristianamente inaccettabili ma apprezzate dalle società farmaceutiche e dalle politiche dell’Unione europea. Non ha nulla a che vedere per esempio con “i mutilatini di don Gnocchi”. Save the Children è sulla stessa linea, fra le altre cose si è impegnata a risolvere radicalmente il problema della Sindrome di Down facendo sparire, prima che nascano tutti i feti sospetti (anche senza il consenso dei genitori), naturalmente come opera di carità (non cristiana) per far vivere meglio i genitori e alimentare il business degli interventi abortivi sulle donne. Non ha nulla a che vedere  con la carità di Madre Teresa di Calcutta. Amnesty international, fondata da un cattolico nel 1961, a difesa dei perseguitati politici, si è inoltrata nelle così dette “battaglie civili” di liberalizzazione della donna, dell’omofobia, aborto, eutanasia, ecc. abbandonando i cristiani perseguitati in Irak e le vittime dell’ISIS. Non ha nulla a che vedere per esempio con l’accoglienza dei profughi a Kakuma (Sudan) dei Salesiani di Don Bosco.
La carità cristiana (le opere di misericordia) è un’altra cosa, è l’amore di Dio che si manifesta attraverso gli operatori di pace che saranno chiamati figli di Dio e che operano in condizioni molto difficili e a rischio della vita, ma che Dio conosce molte bene. (Sintesi di alcuni articoli tratti da www.lanuovabq.it “il Timone”, “il Foglio” e da documentazioni di  “pro vita” e dei Salesiani)


Specie
Le discipline trasmesse nelle Scuole e nelle Università

Le fonti del sapere che costituiscono le varie discipline che si trasmettono all’interno delle Scuole sono:
La Divina rivelazione viene trasmessa attraverso la Sacra Scrittura e i Padri della Chiesa che sono coloro che sono stati a contatto diretto con chi è stato testimone della venuta in terra del Figlio di Dio, della sua morte e della sua resurrezione. Hanno scritto e commentato per i posteri i loro studi delle scritture e delle testimonianze vissute. Quindi la prima fonte della Scolastica è la Patristica, che non si chiude, ma viene travasata nella Scolastica.
Questo patrimonio culturale trasmesso dalle Scuole e dalle Università medioevali ha come sottofondo di tutte le discipline che vengono trasmesse una reciproca fecondazione tra Fede e Ragione. La Fede nella Divina Rivelazione come supporto della Ragione e la Ragione come strumento a supporto della Fede. Ora mentre per la Fede sono Autoritatas i Padri della Chiesa, per la Ragione sono Autoritatas Platone, Plotino e i neoplatonici.
Con il medioevo c’è la riscoperta di Aristotele che sarà la sorgente di una nuova e più ancora feconda riflessione razionale e quindi della filosofia medioevale. Ci sono poi i Pensatori Latini (Cicerone e Seneca in particolare) che alimentano la Scolastica per gli aspetti del Diritto e della Morale.
Non esistevano sue traduzioni in latino e il greco non era conosciuto, ma esistevano due centri culturali importanti, quello ebraico (di Mosè Maimonide studioso e traduttore di Aristotele in latino) e quello arabo (noto per Averroè e Avicenna che studiando Aristotele entrano in contatto con la Scolastica medioevale e contribuiscono a farlo conoscere in Europa).
Questo è quanto ufficialmente troviamo ancora oggi sui libri di scuola, ma vale la pena di fare più chiarezza sul “viaggio di Aristotele verso l’Europa” e sui personaggi ai quali è attribuito il merito di aver fatto conoscere Aristotele ad un medioevo dichiarato “addormentato” dall’irrazionalità della religione.
Mosè Maimònide, (Cordova, 1138  Cairo,  1204), è stato un filosofo,  rabbino e medico spagnolo. Maimònide esercitò un'influenza determinante sui filosofi scolastici, specialmente su Alberto Magno, Tommaso d'Aquino e Duns Scoto. Era egli stesso un ebreo scolastico. Istruitosi più leggendo le opere dei filosofi arabi mussulmani che dal contatto personale con insegnanti arabi, acquisì una conoscenza intima non solo con la filosofia arabo-mussulmana, ma anche con le dottrine di Aristotele. Maimònide si sforzò di conciliare la filosofia aristotelica e la scienza con gli insegnamenti della Torah.

Averroè fu medico, giurista e filosofo. Scrisse diversi commenti su Aristotele, alcune opere filosofiche originali e una enciclopedia di medicina. Non conosceva il greco, e pertanto si avvicinò alle opere greche solo grazie alle traduzioni in arabo realizzate dai cristiani siriaci. Storicamente, Averroè fu importantissimo per le sue traduzioni e commenti delle opere di Aristotele, che in Occidente erano state quasi completamente dimenticate (prima del 1150 solo pochissime opere aristoteliche erano accessibili nell'Europa latina). Il recupero della tradizione aristotelica in Europa deve moltissimo alla traduzione in latino degli scritti di Averroè, iniziata nel XII secolo. Tommaso d'Aquino, anche se si oppose ad alcune correnti di pensiero averroiste a lui contemporanee, allora fortemente rappresentate nell'università parigina, ha in comune con Averroè una profonda rivalutazione dell'opera di Aristotele. Averroè sosteneva che la verità può essere raggiunta sia attraverso la religione rivelata sia attraverso la filosofia speculativa. Durante l'ondata di fanatismo religioso dell’Islam che attraversò al-Andalus alla fine del XII secolo, egli fu esiliato a Marrakesh.

Avicenna si occupò di etica, logica e metafisica. Molti di questi trattati li ha scritti in arabo, che de facto era la lingua utilizzata nei saggi scientifici dell'epoca, mentre alcune altre opere le ha compilate in persiano.
Nel mondo islamico medievale, Avicenna ebbe grandi meriti sia per il tentativo di rifondare una filosofia orientale, sia per lo sforzo proteso al riavvicinamento del modello di Aristotele  con quello di Platone, utilizzando come collante le fondamenta della filosofia islamica a sfondo religioso Kalam. Avicenna influenzò i pensatori medievali europei, in particolar modo per la sua dottrina sulla natura dell'anima e per quella sulla distinzione fra esistenza ed essenza.

I Copisti dell'Abbazia di Mont-Saint-Michel tradussero le  opere di Aristotele, nella  prima metà del XII secolo, dal greco al latino. Questi monaci furono i pionieri della diffusione della filosofia aristotelica in Europa. La loro opera non si limitò alla traduzione dei testi, ma fu accompagnata dai commenti agli stessi. Essi distribuirono ondate di traduzioni delle opere di Aristotele, effettuate direttamente a partire dai testi greci e furono effettuate 50 anni prima che iniziassero nella Spagna sottomessa dagli arabi le traduzioni delle versioni arabe di quegli stessi testi (realizzate dai cristiani arabizzati). La Francia e l'Inghilterra, per esempio, disposero dell'intera opera di Aristotele prima che potessero avere a disposizione le traduzioni dall'arabo. Questi due paesi, assieme alla Chiesa, furono tra i maggiori diffusori delle traduzioni greco-latine di Aristotele.
Giacomo Veneto (morto a Venezia? tra il 1140 e il 1150). A lui si deve la traduzione di quasi tutta l'opera di Aristotele, egli iniziò le traduzioni prima del 1127.
I Cristiani d'Oriente in fuga a causa delle conquiste arabe, portarono in Europa, a partire dall'VIII secolo e soprattutto nell'Italia meridionale, la cultura e le conoscenze greche. Per non citare i continui scambi culturali tra mondo bizantino (dove i testi greci erano conservati) e Occidente, che garantirono la diffusione del sapere greco in Europa. Ciò dimostra come gli europei da sé si siano messi alla ricerca dei testi del sapere greco per studiare e comprendere meglio la fede con l’aiuto della ragione e del suo maestro indiscusso Aristotele.
Quando si afferma che furono gli arabi a portare Aristotele in Europa, si dimentica troppo spesso di precisare come gli stessi arabi entrarono in possesso della cultura ellenistica filosofica e scientifica. In realtà il movimento che portò Aristotele in Europa fu di tipo circolare secondo l'immagine usata da Gilson. Occorre cioè ricordare,  che furono i cristiani orientali, in particolare siriani, a tradurre in arabo l'intero patrimonio culturale ellenistico. L'origine del movimento che fece giungere Aristotele in Occidente è quindi da vedersi in una filosofia araba cristiana e non mussulmana. 

Differente sviluppo della filosofia nel mondo arabo.

Possiamo fare alcune considerazioni sul diverso sviluppo che ebbe l'aristotelismo e con esso la filosofia nel mondo occidentale cristiano e nel mondo arabo mussulmano. Se è vero che gli arabi contribuirono insieme ai pensatori occidentali a entrare in contatto con Aristotele, è anche vero che l'aristotelismo, e la filosofia con esso ebbero fortune ben diverse. Nell'occidente cristiano, infatti, superate le difficoltà iniziali, Aristotele divenne punto di partenza fondamentale per l'elaborazione della filosofia cristiana. La sintesi tomista in particolare nel corso dei secoli assumerà un ruolo di primo piano all'interno della Chiesa. Per questo motivo viene indicata dallo stesso Magistero come modello da imitare: "Nella riflessione di S. Tommaso, infatti, l'esigenza della ragione e la forza della fede hanno trovato la sintesi più alta che il pensiero abbia mai raggiunto, in quanto egli ha saputo difendere la radicale novità portata dalla Rivelazione senza mai umiliare il cammino proprio della ragione" (Giovanni Paolo II, Fides et ratio, 78).
Diverso sicuramente risulta lo sviluppo del pensiero filosofico all'interno del mondo arabo mussulmano. Qui non si verificò quella sintesi armonica tra ragione e fede, operata da S. Tommaso in Occidente e alla lunga finì per prevalere un atteggiamento in cui il Corano divenne l'unico punto di riferimento autorevole. A questo si deve aggiungere che il testo sacro mussulmano, a differenza delle Sacre Scritture cristiane non lasciava spazio all'interpretazione e pertanto la stessa fede non poteva essere pensata criticamente. Si finì così per mettere sempre più in secondo piano la riflessione filosofica, se non addirittura per abbandonarla del tutto: "la grande civiltà araba terminò nella Cristianità. Gli eredi di Avicenna e di Averroè sono nell'Occidente cristiano, non nel mondo islamico. I cristiani portarono nel mondo islamico la sorgente greca, ma essa si esaurì dopo un periodo di splendore: l'Islam si rivelò incompatibile con la filosofia. La scelta fu di fermarsi al Corano, bloccando la dinamica del pensiero" (Gianni Baget Bozzo, Di fronte all'Islam, Marietti, 2001 Genova, p. 30). Il mancato sviluppo del pensiero aristotelico e più in generale filosofico deriva quindi dall'incapacità di superare il contrasto tra il Corano e il sapere filosofico, incapacità che viene espressa da Chesterton con la sua consueta ironia in questi termini: "dei filosofi maomettani possiamo dire in generale che quanti divennero dei bravi filosofi divennero cattivi mussulmani" (vedi a questo proposito: Chesterton, Introduzione a San Tommaso, Piemme, 1998; ma anche: Gouguenheim Sylvain – “Aristotele contro Averroè. Come cristianesimo e Islam salvarono il pensiero greco” - Rizzoli; Giuseppe Rizzardi “Il linguaggio religioso dell’Islam” ed. Glossa – Il quale ci dice che la conoscenza dell'Islam da parte della cultura europea e cristiana esige la traduzione delle categorie religiose islamiche ermetiche dentro la cultura greco latina razionale, cosa praticamente impossibile).
Un’ultima considerazione sulle differenze insanabili fra cristianesimo e islam.
Per il cristiano la fede è centrata su Cristo (vero Dio e vero Uomo), Via, Verità e Vita, e il cristiano crede fermamente nella sua incarnazione, passione, morte e resurrezione (il Vangelo è solo la testimonianza di chi gli è vissuto accanto, gli apostoli). Per il mussulmano l’unico riferimento è un libro, il Corano, dettato  a Maometto dall’arcangelo Gabriele e che, nonostante abbia al suo interno diverse contraddizioni, deve essere assorbito così come è, senza alcun tipo di ragionamento o interpretazione (sola Fides no Ratio), pena la morte. Gesù è Dio d’amore. Maometto è un abile e cinico Condottiero in armi lanciato alla conquista del mondo con le buone o con le cattive (dalla sua biografia si sa che partecipava personalmente alla decapitazione dei suoi nemici vinti).

La Scolastica e il metodo delle Dispute


Il Sapere scientifico e culturale all’interno delle Scuole si sviluppa utilizzando il metodo delle “dispute” (questiones disputates), cioè dibattiti con i quali due studenti si debbono affrontare come su di un ring, nel quale uno spiega la propria TESI e l’altro fa le OBIEZIONI in merito. Il primo deve saper RISPONDERE alle obiezioni con SPIEGAZIONI valide a tacitare il compagno. Se non ci riesce viene sostituito da chi tenterà per lui di spegnere definitivamente le obiezioni. L’insegnante funge da arbitro e fa da AUTORITÀ insindacabile. Così fanno da autoritas insindacabile i Padri della Chiesa su temi di dottrina, così fanno Aristotele o altri filosofi o pensatori su temi filosofici, razionali, giuridici o morali.  Quindi il metodo consiste nell’esporre una tesi, gestirne le obiezioni, accettare l’arbitraggio dell’insegnate, spiegare perché l’obiezione non è valida e dare una risposta definitiva e incontrovertibile (il corpo della disputa) cioè che non permetta all’interlocutore di controbattere.
Anche le opere dei pensatori e studiosi medioevali rispettano questo schema. Per esempio la Summa Teologica di san Tommaso è divisa in questiones: 1. Dio esiste, 2. da alcune considerazioni sembra che Dio non esista, 3. Dio esiste perché lo afferma La Sacra Scrittura, 4. spiegazione del perché Dio esiste, 5. risposta inequivocabile alle obiezioni.

Il metodo scolastico

Classificazione delle attività che si fanno a Scuola.

Le arti liberali: il Trivio, cioè le tre Arti o Capacità che forniscono gli strumenti e le abilità per poter essere maestro e alunno dentro la scuola:
1.   la grammatica, bisogna sapere come si parla e come si scrive,
2.   la retorica, bisogna sapere come presentare gli argomenti,
3.   la dialettica, bisogna sapere come difendere gli argomenti presentati da coloro che vi si oppongono.

Le altre arti liberali: il Quadrivio, sono poi le materie in cui ci si cimenta, cioè il cosa studiare e sapere e sono quattro:
1.   l’Aritmetica
2.   la Geometria e sotto a questo nome va tutta la Matematica
3.   l’Astronomia e sotto questo nome vanno tutte le Scienze Naturali
4.   la Musica e sotto a questo nome vanno tutte le Arti (le Muse)

Esistono poi le arti superiori:
1.   la Filosofia che dà l’anima a l’impianto di tutto questo


2.   la Teologia come vertice del sapere


Giovanni Scoto Eriugena (Irlanda, 810? – Inghilterra, 877?)
Eriugena è stato un monaco, teologo, filosofo e traduttore, considerato uno dei più grandi filosofi  altomedievali per il suo contributo nell'ambito speculativo.
Speculatio, speculationis  indica l'attività di indagine filosofica di utilità teorica anche senza una immediata utilità pratica, oggi nell’accezione comune invece è il suo contrario, speculare = ricavare un utile maggiore del giusto.
Giovanni Scoto Eriugena  è direttore della Scuola Palatina, voluta da Carlo Magno, presso la corte di Carlo il Calvo.

De Divisione naturae

Il De Divisione naturae o Periphyseon di Scoto Eriugena:
a)   È un’opera di capitale importanza per una filosofia sostanzialmente spirituale, cioè come contemplazione;
b)   È una pietra miliare per chi studia e ricerca con questo intendimento;
c)   I suoi elementi fondamentali sono 4:
        1- il neoplatonismo greco cristianamente rielaborato;
        2- la dottrina di una natura divina;
        3- la costante preoccupazione metafisica ed insieme religioso-teologica.
4- è scritta come un dialogo e quindi i suoi personaggi sono straordinariamente vivi.
Scoto chiama l'insieme di tutte le cose "Natura", e poiché la natura si identifica con Dio ed è una sua Teofania (Rivelazione), egli in essa distingue le quattro divisioni della Natura, cioè dell'essere divino (rischiando l’accusa di Panteismo).
Tutte le cose dipendono dalla Natura che non è creata e crea, cioè Dio
Tutte le cose ritornano alla fine a Lui attraverso la Natura che è creata e crea, il Logos, attraverso la Natura che è creata e non crea, le cose del mondo e attraverso la Natura che non è creata e non crea, cioè tutto ciò che ha concluso il suo fine e torna a Dio.

Il «Corpus Dionysianum» dello Pseudo Dionigi l’Areopagita

Scoto è traduttore e commentatore di quest’opera che avrà vasta influenza sino alla fine del Medioevo.
Nel Corpus Dyonisianum  (un corpus di manoscritti in greco antico, i cui autori sono incerti) viene analizzata la dimensione dello Spirito, estranea alla filosofia antica che parlò solamente di corpo e anima. In accordo con il platonismo, l'anima è il punto di unione fra l'intelligibile e il principio materiale, il sensibile. L’intelligibile sono le idee-essenze che danno forma al corpo e al carattere di ogni persona, e sono parte di Dio che è tutte le idee.
In una antica immagine che accompagnava l’opera di Giovanni Scoto Eriugena “Sulle nature dell' universo” si nota nel primo settore un personaggio regale circondato da sette donne; al di sopra di esso è inscritto il nome bonitas; anche al di sopra delle altre figure sono indicati nomi che corrispondono ai sette nomi divini: justitia, virtus, ratio, veritas, essentia, vita, sapientia. Il tema non è nuovo: le sette arti liberali, la Sapientia e le sue sette figlie si incontrano spesso.
Nel secondo riquadro un mostro è posto all’interno di un medaglione circondato da queste parole: materia informis; esso simboleggia la terra « informe e vuota » della Genesi ed è formato sostanzialmente da bocche, nasi e occhi. 
Alla sua sinistra una donna regge la scritta locus; alla sua destra un vegliardo porta l’iscrizione tempus. Così, in questo secondo riquadro, sono rappresentati il tempo e lo spazio.
Il terzo riquadro è occupato da un insieme di quattro miniature che raffigurano la creazione. La prima rappresenta gli angeli, la seconda gli uccelli, la terza i pesci e la quarta le piante, gli animali e la coppia umana.
Nell’ultimo riquadro si trova il volto aureolato di Cristo che sostiene tutto il cosmo e lo attira a sé per mezzo di un insieme di legami simbolici.
Antica immagine che accompagnava l’opera di Giovanni Scoto Eriugena “Sulle nature dell' universo”



Contra Gotescalco

Giovanni Scoto confuta, su richiesta di due Vescovi, la tesi della doppia destinazione sostenuta dal monaco Gotescalco, cioè che Dio, sapendo  dall’eternità il destino di ogni uomo, di fatto l’ha già predestinato alla dannazione o alla salvezza.
Ma Scoto Eriugena obietta che non è possibile attribuire a Dio una "pre-destinazione"  intesa come "destinare prima", in quanto in Dio non esiste né un prima né un dopo.
La caratteristica essenziale dell'uomo è, per Eriugena, il libero arbitrio che è dunque la possibilità di peccare o di non peccare, come di fruire dell'aiuto della Grazia divina o di rifiutarla.

Giovanni Scoto Eriugena di papa Benedetto XVI  

dall’ UDIENZA GENERALE in Piazza San Pietro, Mercoledì, 10 giugno 2009
Cari fratelli e sorelle, oggi vorrei parlare di un notevole pensatore dell’Occidente cristiano: Giovanni Scoto Eriugena, le cui origini però sono oscure. Proveniva certamente dall’Irlanda, dove era nato agli inizi dell’800, ma non sappiamo quando abbia lasciato la sua Isola per attraversare la Manica ed entrare così a far parte pienamente di quel mondo culturale che stava rinascendo intorno ai Carolingi, e in particolare intorno a Carlo il Calvo, nella Francia del IX secolo. Come non si conosce la data certa della sua nascita, così ignoriamo anche l’anno della sua morte che, secondo gli studiosi, dovrebbe comunque collocarsi intorno all’anno 870.

Giovanni Scoto Eriugena aveva una cultura patristica, sia greca che latina, di prima mano: conosceva infatti direttamente gli scritti dei Padri latini e greci. Conosceva bene, fra le altre, le opere di Agostino, di Ambrogio, di Gregorio Magno, grandi Padri dell’Occidente cristiano, ma conosceva altrettanto bene il pensiero di Origene, di Gregorio di Nissa, di Giovanni Crisostomo e di altri Padri cristiani di Oriente non meno grandi. 
Era un uomo eccezionale, che dominava in quel tempo anche la lingua greca. Dimostrò un’attenzione particolarissima per San Massimo il Confessore e, soprattutto, per Dionigi l’Areopagita. Sotto questo pseudonimo si nasconde uno scrittore ecclesiastico del V secolo, della Siria, ma tutto il Medioevo, e anche Giovanni Scoto Eriugena, fu convinto che questo autore fosse identico ad un discepolo diretto di San Paolo, del quale si parla negli Atti degli Apostoli (cfr At 17,34). 

Scoto Eriugena, convinto di questa apostolicità degli scritti di Dionigi, lo qualificava ‘autore divino’ per eccellenza; gli scritti di lui furono perciò una fonte eminente del suo pensiero. Giovanni Scoto tradusse in latino le sue opere. I grandi teologi medioevali, come San Bonaventura, hanno conosciuto le opere di Dionigi tramite questa traduzione. Si dedicò per tutta la vita ad approfondire e sviluppare il suo pensiero, attingendo a questi scritti, al punto che ancora oggi qualche volta può essere arduo distinguere dove abbiamo a che fare col pensiero di Scoto Eriugena e dove invece egli non fa altro che riproporre il pensiero dello Pseudo Dionigi.

In verità, il lavoro teologico di Giovanni Scoto non ebbe molta fortuna. Non solo la fine dell’era carolingia fece dimenticare le sue opere; anche una censura da parte dell’Autorità ecclesiastica gettò un’ombra sulla sua figura. In realtà, Giovanni Scoto rappresenta un platonismo radicale, che qualche volta sembra avvicinarsi ad una visione panteistica, anche se le sue intenzioni personali soggettive furono sempre ortodosse. 

Di Giovanni Scoto Eriugena ci sono giunte alcune opere, tra le quali meritano di essere ricordate, in particolare, il trattato "Sulla divisione della natura" e le "Esposizioni sulla gerarchia celeste di San Dionigi". Egli vi sviluppa stimolanti riflessioni teologiche e spirituali, che potrebbero suggerire interessanti approfondimenti anche ai teologi contemporanei. Mi riferisco, ad esempio, a quanto egli scrive sul dovere di esercitare un discernimento appropriato su ciò che viene presentato come auctoritas vera, oppure sull’impegno di continuare a cercare la verità fino a che non se ne raggiunga una qualche esperienza nell’adorazione silenziosa di Dio.

Il nostro autore dice: "Salus nostra ex fide inchoat”: la nostra salvezza comincia con la fede". Non possiamo cioè parlare di Dio partendo dalle nostre invenzioni, ma da quanto dice Dio di se stesso nelle Sacre Scritture. Poiché tuttavia Dio dice solo la verità, Scoto Eriugena è convinto che l’autorità e la ragione non possano mai essere in contrasto l’una con l’altra; è convinto che la vera religione e la vera filosofia coincidono. In questa prospettiva scrive: "Qualunque tipo di autorità che non venga confermata da una vera ragione dovrebbe essere considerata debole… Non è infatti vera autorità se non quella che coincide con la verità scoperta in forza della ragione, anche se si dovesse trattare di un’autorità raccomandata e trasmessa per l’utilità dei posteri dai santi Padri" (I, PL 122, col 513BC). 

Conseguentemente, egli ammonisce: "Nessuna autorità ti intimorisca o ti distragga da ciò che ti fa capire la persuasione ottenuta grazie ad una retta contemplazione razionale. Infatti l’autentica autorità non contraddice mai la retta ragione, né quest’ultima può mai contraddire una vera autorità. L’una e l’altra provengono senza alcun dubbio dalla stessa fonte, che è la sapienza divina" (I, PL 122, col 511B). Vediamo qui una coraggiosa affermazione del valore della ragione, fondata sulla certezza che l’autorità vera è ragionevole, perchè Dio è la ragione creatrice.

La Scrittura stessa non sfugge, secondo Eriugena, alla necessità di essere accostata utilizzando il medesimo criterio di discernimento. La Scrittura infatti – sostiene il teologo irlandese riproponendo una riflessione già presente in Giovanni Crisostomo – pur provenendo da Dio, non sarebbe stata necessaria se l’uomo non avesse peccato. Si deve dunque dedurre che la Scrittura fu data da Dio con un intento pedagogico e per condiscendenza, perché l’uomo potesse ricordare tutto ciò che gli era stato impresso nel cuore fin dal momento della sua creazione "ad immagine e somiglianza di Dio" (cfr Gn 1,26) e che la caduta originale gli aveva fatto dimenticare. 

Scrive l’Eriugena nelle Expositiones: "Non è l’uomo che è stato creato per la Scrittura, della quale non avrebbe avuto bisogno se non avesse peccato, ma è piuttosto la Scrittura – intessuta di dottrina e di simboli – che è stata data per l’uomo. Grazie ad essa infatti la nostra natura razionale può essere introdotta nei segreti dell’autentica pura contemplazione di Dio" (II, PL 122, col 146C). La parola della Sacra Scrittura purifica la nostra ragione un po’ cieca e ci aiuta a ritornare al ricordo di ciò che noi, in quanto immagine di Dio, portiamo nel nostro cuore, vulnerato purtroppo dal peccato.

Derivano da qui alcune conseguenze ermeneutiche, circa il modo di interpretare la Scrittura, che possono indicare ancora oggi la strada giusta per una corretta lettura della Sacra Scrittura. Si tratta infatti di scoprire il senso nascosto nel testo sacro e questo suppone un particolare esercizio interiore grazie al quale la ragione si apre al cammino sicuro verso la verità. Tale esercizio consiste nel coltivare una costante disponibilità alla conversione. Per giungere infatti alla visione in profondità del testo è necessario progredire simultaneamente nella conversione del cuore e nell’analisi concettuale della pagina biblica sia essa di carattere cosmico, storico o dottrinale. È infatti solo grazie alla costante purificazione sia dell’occhio del cuore che dell’occhio della mente che si può conquistare l’esatta comprensione.
Questo cammino impervio, esigente ed entusiasmante, fatto di continue conquiste e relativizzazioni del sapere umano, porta la creatura intelligente fin sulla soglia del Mistero divino, dove tutte le nozioni accusano la propria debolezza e incapacità e impongono perciò, con la semplice forza libera e dolce della verità, di andare sempre oltre tutto ciò che viene continuamente acquisito. Il riconoscimento adorante e silenzioso del Mistero, che sfocia nella comunione unificante, si rivela perciò come l’unica strada di una relazione con la verità che sia insieme la più intima possibile e la più scrupolosamente rispettosa dell’alterità.
Giovanni Scoto – utilizzando anche in questo un vocabolario caro alla tradizione cristiana di lingua greca – ha chiamato questa esperienza alla quale tendiamo "theosis" o divinizzazione, con affermazioni ardite al punto che fu possibile sospettarlo di panteismo eterodosso. Resta forte comunque l’emozione di fronte a testi come il seguente dove – ricorrendo all’antica metafora della fusione del ferro – scrive: "Dunque, come tutto il ferro reso rovente si è liquefatto al punto che sembra esserci soltanto fuoco e tuttavia restano distinte le sostanze dell’uno e dell’altro, così si deve accettare che dopo la fine di questo mondo tutta la natura, sia quella corporea che quella incorporea, manifesti soltanto Dio e tuttavia resti integra in modo tale che Dio possa essere in qualche modo com-preso pur restando in-comprensibile e la creatura stessa venga trasformata, con meraviglia ineffabile, in Dio" (V, PL 122, col 451B).
In realtà, l’intero pensiero teologico di Giovanni Scoto è la dimostrazione più palese del tentativo di esprimere il dicibile dell’indicibile Dio, fondandosi unicamente sul mistero del Verbo fatto carne in Gesù di Nazareth. Le tante metafore da lui utilizzate per indicare questa realtà ineffabile dimostrano quanto egli sia consapevole dell’assoluta inadeguatezza dei termini con cui noi parliamo di queste cose. 

E tuttavia resta l’incanto e quell’atmosfera di autentica esperienza mistica che si può di tanto in tanto toccare con mano nei suoi testi. Basti citare, a riprova di ciò, una pagina del De divisione naturae che tocca in profondità l’animo anche di noi credenti del XXI secolo: 

"Non si deve desiderare altro se non la gioia della verità che è Cristo, né altro evitare se non l’assenza di Lui. Questa infatti si dovrebbe ritenere causa unica di totale ed eterna tristezza. Toglimi Cristo e non mi rimarrà alcun bene né altro mi atterrirà quanto la sua assenza. Il più grande tormento di una creatura razionale sono la privazione e l’assenza di Lui" (V, PL 122, col 989a). 

Sono parole che possiamo fare nostre, traducendole in preghiera a Colui che costituisce l’anelito anche del nostro cuore. (Papa Benedetto XVI, 10 giugno 2009)




Sacra Scrittura, Tradizione e Magistero


Dal testo di “Teologia morale fondamentale” di Aurelio Fernandez, ed. Ares estraiamo questa sintesi delle fonti fondamentali della nostra fede.







Sant’Anselmo d'Aosta o di Canterbury
(Aosta1033 -Canterbury1109),
Teologofilosofomonaco e arcivescovo, considerato tra i massimi esponenti del pensiero medievale di area cristiana, Anselmo è noto soprattutto per i suoi argomenti a dimostrazione dell'esistenza di Dio. Nato da una nobile famiglia di Aosta all'età di 60 anni ricevette l'importante carica di arcivescovo di Canterbury.
Sant’Anselmo venne canonizzato nel 1163 e dichiarato dottore della Chiesa nel 1720.

La riflessione di Anselmo è basata sulla Ragione per comprendere i dati di Fede (Credo per capire, “credo ut intelligam”).
Si articolò su:
1.   dimostrazioni apriori e a posteriori dell'esistenza di Dio;
2.   questioni di dialettica e di logica sulla verità e sulla conoscibilità di Dio,
3.   problemi dottrinali sulla Trinità
4.   problemi dottrinali sul Libero arbitrio
5.   problemi dottrinali sul Peccato originale
6.   problemi dottrinali sulla Grazia

Il Monologium

è l’Opera in cui Anselmo analizza le prove dell’esistenza di Dio a posteriori. Si parte dal mondo, si vedono i gradi di perfezione della realtà e da questi si risale all’esistenza di Dio (similmente ad Aristotele e al suo motore immobile). Dalle perfezioni visibili si può risalire alla perfezione invisibile, cioè a Dio, come san Paolo aveva già detto nella lettera ai romani.

Il Proslogion

è l’Opera più famosa nella quale Anselmo vuol dimostrare l’esistenza di Dio a priori, senza riferimenti alla realtà, ma solo ragionando.
Infatti se pensa che Dio non c’è deve comunque esserci nella sua mente un concetto di Dio, altrimenti non potrebbe negarlo. E se c’è nella sua mente c’è anche nella realtà.
Anche chi non crede non può non pensare che ci sia un essere del quale non esista nulla di maggiore di lui. Dio è l’essere di cui non si può pensare nulla di più grande.
Questo essere più grande in assoluto, se lo puoi pensare vuol dire che esiste anche nella realtà. Quello che penso esiste, altrimenti non potrei pensarlo.

 

La Libertà

Dio sa tutto perché è svincolato dal tempo. Non prevede e stabilisce cosa io faccio o debbo fare, ma semplicemente lo sa. Dio non vede le cose accadere perché in Lui il tempo non esiste, o meglio l’ha creato per noi, ma Lui non lo subisce.

Sant'Anselmo d’Aosta di papa Benedetto XVI  

dall’UDIENZA GENERALE di Mercoledì, 23 settembre 2009
Cari fratelli e sorelle, a Roma, sul colle dell’Aventino, si trova l'Abbazia benedettina di Sant’Anselmo. Come sede di un Istituto di studi superiori e dell'Abate Primate dei Benedettini Confederati, essa è un luogo che unisce in sé la preghiera, lo studio e il governo, proprio le tre attività che caratterizzarono la vita del Santo al quale è dedicata: Anselmo d’Aosta di cui ricorre quest’anno il IX centenario della morte. Le molteplici iniziative, promosse specialmente dalla diocesi di Aosta per questa fausta ricorrenza hanno evidenziato l’interesse che continua a suscitare questo pensatore medievale. Egli è noto anche come Anselmo di Bec e Anselmo di Canterbury a motivo delle città con le quali è stato in rapporto. Chi è questo personaggio al quale tre località, lontane tra loro e collocate in tre Nazioni diverse – Italia, Francia, Inghilterra –, si sentono particolarmente legate? Monaco di intensa vita spirituale, eccellente educatore di giovani, teologo con una straordinaria capacità speculativa, saggio uomo di governo ed intransigente difensore della libertas Ecclesiae, Anselmo é una delle personalità eminenti del Medioevo, che seppe armonizzare tutte queste qualità grazie a una profonda esperienza mistica, che sempre ebbe a guidarne il pensiero e l’azione.
 Sant’Anselmo nacque nel 1033 (o all’inizio del 1034) ad Aosta, primogenito di una famiglia nobile. Il padre era uomo rude, dedito ai piaceri della vita e dissipatore dei suoi beni; la madre, invece, era donna di elevati costumi e di profonda religiosità (cfr Eadmero, Vita s. Anselmi, PL 159, col 49). Fu lei a prendersi cura della prima formazione umana e religiosa del figlio, che affidò, poi, ai Benedettini di un priorato di Aosta. Anselmo, che da bambino – come narra il suo biografo - immaginava l’abitazione del buon Dio tra le alte e innevate vette delle Alpi, sognò una notte di essere invitato in questa reggia splendida da Dio stesso, che si intrattenne a lungo ed affabilmente con lui e alla fine gli offrì da mangiare “un pane candidissimo” (ibid., col 51). Questo sogno gli lasciò la convinzione di essere chiamato a compiere un’alta missione. All’età di quindici anni, chiese di essere ammesso nell’Ordine benedettino, ma il padre si oppose con tutta la sua autorità e non cedette neppure quando il figlio gravemente malato, sentendosi vicino alla morte, implorò l'abito religioso come supremo conforto. Dopo la guarigione e la scomparsa prematura della madre, Anselmo attraversò un periodo di dissipazione morale: trascurò gli studi e, sopraffatto dalle passioni terrene, diventò sordo al richiamo di Dio. Se ne andò da casa e cominciò a girare per la Francia in cerca di nuove esperienze. Dopo tre anni, giunto in Normandia, si recò nell’Abbazia benedettina di Bec, attirato dalla fama di Lanfranco da Pavia, priore del monastero. Fu per lui un incontro provvidenziale e decisivo per il resto della sua vita. Sotto la guida di Lanfranco, Anselmo riprese infatti con vigore gli studi e, in breve tempo, diventò non solo l’allievo prediletto, ma anche il confidente del maestro. La sua vocazione monastica si riaccese e, dopo attenta valutazione, all’età di 27 anni, entrò nell’Ordine monastico e venne ordinato sacerdote. L’ascesi e lo studio gli aprirono nuovi orizzonti, facendogli ritrovare, in grado ben più alto, quella familiarità con Dio che aveva avuto da bambino.
Quando, nel 1063, Lanfranco diventò abate di Caen, Anselmo, dopo appena tre anni di vita monastica, fu nominato priore del monastero di Bec e maestro della scuola claustrale, rivelando doti di raffinato educatore. Non amava i metodi autoritari; paragonava i giovani a piccole piante che si sviluppano meglio se non sono chiuse in serra e concedeva loro una “sana” libertà. Era molto esigente con se stesso e con gli altri nell’osservanza monastica, ma anziché imporre la disciplina si impegnava a farla seguire con la persuasione. Alla morte dell’abate Erluino, fondatore dell’abbazia di Bec, Anselmo venne eletto unanimemente a succedergli: era il febbraio 1079. Intanto numerosi monaci erano stati chiamati a Canterbury per portare ai fratelli d’oltre Manica il rinnovamento in atto nel Continente. La loro opera fu ben accetta, al punto che Lanfranco da Pavia, abate di Caen, divenne il nuovo Arcivescovo di Canterbury e chiese ad Anselmo di trascorrere un certo tempo con lui per istruire i monaci e aiutarlo nella difficile situazione in cui si trovava la sua comunità ecclesiale dopo l’invasione dei Normanni. La permanenza di Anselmo si rivelò molto fruttuosa; egli guadagnò simpatia e stima, tanto che, alla morte di Lanfranco, fu scelto a succedergli nella sede arcivescovile di Canterbury. Ricevette la solenne consacrazione episcopale nel dicembre del 1093.
Anselmo si impegnò immediatamente in un’energica lotta per la libertà della Chiesa, sostenendo con coraggio l’indipendenza del potere spirituale da quello temporale. Difese la Chiesa dalle indebite ingerenze delle autorità politiche, soprattutto dei re Guglielmo il Rosso ed Enrico I, trovando incoraggiamento e appoggio nel Romano Pontefice, al quale Anselmo dimostrò sempre una coraggiosa e cordiale adesione. Questa fedeltà gli costò, nel 1103, anche l’amarezza dell’esilio dalla sua sede di Canterbury. E soltanto quando, nel 1106, il re Enrico I rinunciò alla pretesa di conferire le investiture ecclesiastiche, come pure alla riscossione delle tasse e alla confisca dei beni della Chiesa, Anselmo poté far ritorno in Inghilterra, accolto festosamente dal clero e dal popolo. Si era così felicemente conclusa la lunga lotta da lui combattuta con le armi della perseveranza, della fierezza e della bontà. Questo santo Arcivescovo che tanta ammirazione suscitava intorno a sé, dovunque si recasse, dedicò gli ultimi anni della sua vita soprattutto alla formazione morale del clero e alla ricerca intellettuale su argomenti teologici. Morì il 21 aprile 1109, accompagnato dalle parole del Vangelo proclamato nella Santa Messa di quel giorno: “Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; e io preparo per voi un regno, come il Padre l'ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno…” (Lc 22,28-30). Il sogno di quel misterioso banchetto, che da piccolo aveva avuto proprio all’inizio del suo cammino spirituale, trovava così la sua realizzazione. Gesù, che lo aveva invitato a sedersi alla sua mensa, accolse sant’Anselmo, alla sua morte, nel regno eterno del Padre.
“Dio, ti prego, voglio conoscerti, voglio amarti e poterti godere. E se in questa vita non sono capace di ciò in misura piena, possa almeno ogni giorno progredire fino a quando giunga alla pienezza” (Proslogion, cap.14). Questa preghiera lascia comprendere l’anima mistica di questo grande Santo dell’epoca medievale, fondatore della teologia scolastica, al quale la tradizione cristiana ha dato il titolo di “Dottore Magnifico” perché coltivò un intenso desiderio di approfondire i Misteri divini, nella piena consapevolezza, però, che il cammino di ricerca di Dio non è mai concluso, almeno su questa terra. La chiarezza e il rigore logico del suo pensiero hanno avuto sempre come fine di “innalzare la mente alla contemplazione di Dio” (Ivi, Proemium). Egli afferma chiaramente che chi intende fare teologia non può contare solo sulla sua intelligenza, ma deve coltivare al tempo stesso una profonda esperienza di fede. L’attività del teologo, secondo sant’Anselmo, si sviluppa così in tre stadi: la fede, dono gratuito di Dio da accogliere con umiltà; l’esperienza, che consiste nell’incarnare la parola di Dio nella propria esistenza quotidiana; e quindi la vera conoscenza, che non è mai frutto di asettici ragionamenti, bensì di un’intuizione contemplativa. Restano, in proposito, quanto mai utili anche oggi, per una sana ricerca teologica e per chiunque voglia approfondire le verità della fede, le sue celebri parole: “Non tento, Signore, di penetrare la tua profondità, perché non posso neppure da lontano mettere a confronto con essa il mio intelletto; ma desidero intendere, almeno fino ad un certo punto, la tua verità, che il mio cuore crede e ama. Non cerco infatti di capire per credere, ma credo per capire” (Ivi, 1).
Cari fratelli e sorelle, l’amore per la verità e la costante sete di Dio, che hanno segnato l’intera esistenza di sant’Anselmo, siano uno stimolo per ogni cristiano a ricercare senza mai stancarsi una unione sempre più intima con Cristo, Via, Verità e Vita. Inoltre, lo zelo pieno di coraggio che ha contraddistinto la sua azione pastorale, e che gli ha procurato talora incomprensioni, amarezze e perfino l’esilio, sia un incoraggiamento per i Pastori, per le persone consacrate e per tutti i fedeli ad amare la Chiesa di Cristo, a pregare, a lavorare e soffrire per essa, senza mai abbandonarla o tradirla. Ci ottenga questa grazia la Vergine Madre di Dio, verso la quale sant’Anselmo nutrì tenera e filiale devozione. “Maria, te il mio cuore vuole amare – scrive san’Anselmo – te la lingua mia desidera ardentemente lodare”.

La Scolastica: i suoi periodi – sintesi finale

Dal greco scholastikos (che significa letteralmente "educato in una scuola", "istruito"), la filosofia scolastica cercava di conciliare la fede cristiana con un sistema di pensiero razionale, specialmente quello della filosofia greca. Il "periodo scolastico" si riferisce soprattutto al medio e Basso Medioevo in Occidente, quando il Cristianesimo conosce una rinascita intellettuale ed è sfidato dal pensiero razionale dell'Islam. Cronologicamente, esso copre il periodo che va dall'VIII secolo al Rinascimento.
Si suddivide in:
·         Epoca pre-scolastica (dall'VIII secolo al IX secolo) con la fondazione della scola Palatina diretta prima da Alcuino di Yorke in seguito da Giovanni Scoto Eriugena;
·         Alta Scolastica (dall'X secolo al XII secolo) la cui figura di spicco fu Anselmo d'Aosta, a cui seguirono altri come Pietro Abelardo;
·         Bassa Scolastica, ossia il periodo d'oro coincidente con il XIII secolo, grazie alla diffusione del pensiero di Alberto Magno e di Tommaso d'Aquino, a cui si contrappone specularmente quello di Bonaventura;
·         Tarda Scolastica, collocabile dopo Duns Scoto, il cui principale esponente fu Guglielmo di Ockham.

La scolastica ebbe origine dall'istituzione delle scholae, ossia di un sistema scolastico-educativo diffuso in tutta Europa, e che garantiva una sostanziale uniformità di insegnamento. Esso fu il primo, e forse unico, sistema scolastico organizzato su vasta scala della storia dell’Occidente. Era stato Carlo Magno a volerlo, il quale, dando avvio alla "rinascita carolingia", aveva fondato ad Aquisgrana la Schola palatina, per favorire l'istruzione delle genti e la diffusione del sapere allo scopo di dare unità e compattezza al Sacro Romano Impero. A tal fine si era servito dei monaci benedettini, i quali avevano salvaguardato la cultura dei classici tramite la ricopiatura dei testi antichi, non solo di quelli religiosi ma anche scientifici e letterari: le loro abbazie divennero così i centri del nuovo sapere medievale.
Gli insegnamenti erano divisi in due rami:
·         l'arte del trivio (ovvero il complesso delle materie letterarie);
·         l'arte del quadrivio (il complesso delle materie scientifiche).

Preposto all'insegnamento di queste arti cosiddette "liberali" era anticamente lo Scholasticus, a cui in seguito si affiancò un Magister artium, di grado superiore, esperto in teologia. Le lezioni si svolgevano dapprima nei monasteri, poi progressivamente nelle scuole annesse alle cattedrali, e infine nelle università.

Caratteristiche e metodi della Scolastica

Il carattere fondamentale della filosofia scolastica consisteva nell'illustrare e difendere le verità di fede con l'uso della ragione, verso la quale si nutriva un atteggiamento positivo. A tal fine, essi privilegiarono la sistematizzazione del sapere già esistente rispetto all'elaborazione di nuove conoscenze.
L'intento degli scolastici era quello di sviluppare un sapere armonico, integrando la rivelazione cristiana con i sistemi filosofici del mondo greco-ellenistico, convinti della loro compatibilità, e anzi vedendo nel sapere dei classici, in particolare in quello dei grandi pensatori come Socrate, Platone, Aristotele e Plotino, una via in grado di arrivare all'accettazione e spiegazione dei dogmi cattolici.

L'utilizzo della ragione, che essi vedevano sapientemente esercitata nei testi greci, veniva messo in rapporto con la fede non allo scopo di dimostrarne i fondamenti, quanto piuttosto per contrastare le tesi eretiche e cercare di convertire gli atei.
Dallo studio dei testi greci nasce il problema degli universali (cioè del logos, della forma) che viene sviluppato in modi differenti per tutta la scolastica.
·         forma ante rem: l'essenza è prima della realtà (o della materia) come ritenevano Platone e Agostino d'Ippona;
·         forma in re: l'essenza al di fuori della materia non ha alcun senso, come insegnava Aristotele;
·         forma post rem: un semplice nome, ovvero convenzione che deduciamo dall'analisi delle caratteristiche di una serie.
Tommaso, sulla scorta di Boezio, riteneva che gli universali esistessero sia ante rem come Idea nella mente di Dio, sia in re come forma delle varie realtà, sia post rem come concetto formulato nella mente dell'uomo.

A Tommaso, sostanzialmente fautore di un indirizzo filosofico realista, si contrapposero i sostenitori del nominalismo, secondo cui l'universale era solamente un flatus vocis, cioè appunto un nome e nient'altro.
Poiché del resto la scolastica si sviluppò in varie scholae europee e quindi in realtà diverse, era inevitabile che in ogni schola, avendo esse differenti esigenze e finalità, i pensieri e i metodi acquistassero caratteristiche diverse. Vi erano quindi scholae più vive e attive dove spesso si accendevano contrasti tra gli intellettuali più conservatori e i maestri d'arte, i più innovativi.

Gli scolastici svilupparono in tal modo un peculiare metodo di indagine speculativa, noto come quaestio, basato sul commento e la discussione dei testi all'interno delle prime università. I vari dibattiti, tuttavia, dovevano seguire delle regole e dei riferimenti precisi, tra i quali vi era in particolare la logica formale di Aristotele. Valevano poi le auctoritas, che erano rappresentate dagli scritti dei Padri della Chiesa (filosofia patristica), dai testi sacri, e da scritti della tradizione cristiana.
Le auctoritas erano, in sostanza, la decisione di affidarsi ad una voce ufficiale e decisa dai concili, per cui esisteva l'auctoritas in campo medico (Galeno), quella in campo metafisico (Aristotele) e quella in campo astronomico (Tolomeo).

Come già aveva fatto notare Giovanni Scoto Eriugena, però, non era la ragione a fondarsi sull'autorità, ma l'autorità a fondarsi sulla ragione: gli Scolastici così mantennero sempre una forte coscienza critica verso le fonti del loro sapere. Sarà il declino della fiducia nella ragione, a partire da autori come Guglielmo di Ockham, che porterà alla fine della Scolastica e dello stesso Medioevo.

La Scolastica e la scienza

La filosofia scolastica era particolarmente incentrata sullo studio del dogma religioso cristiano, ma non solo. Gli scolastici diedero infatti un forte impulso anche allo sviluppo della scienza.

Nel XII-XIII secolo, nell'ambito degli studi teologici che si tenevano nelle prime Università europee come Bologna, Parigi, Oxford, si svilupparono diverse ricerche sulla natura, ovvero sul creato considerato opera di Dio, che avrebbero dovuto portare all'intelligibilità dell'opera di Dio creatore. Per i filosofi scolastici della natura la creazione era come un libro aperto che andava letto e compreso, un libro contenente leggi naturali la cui transitorietà era riconducibile a regole immutabili inscritte da Dio al momento della creazione. Tali studiosi pensavano che conoscere quelle leggi avrebbe consentito di elevare l'intelligenza umana e di avvicinarla sempre più a Dio.
In quest'ambito valevano come auctoritas anche filosofi dell'epoca greca e persino pensatori di origine islamica.


Due furono in particolare le scuole di pensiero, attestate peraltro su posizioni alquanto distanti tra di loro, che elaborarono ognuna un proprio metodo scientifico: quella di Parigi, facente capo ad Alberto Magno, seguito dal suo discepolo Tommaso d'Aquino, e quella di Oxford, dove fu attivo Ruggero Bacone. Costoro, pur restando fedeli al metodo aristotelico, si occuparono di filosofia della natura basandosi sulle osservazioni degli eventi e contestando alcuni elementi anti-scientifici del pensiero greco. Tommaso in particolare, noto per aver riformulato in chiave nuova la concezione aristotelica della verità come corrispondenza dell'intelletto alla realtà, sviluppò il concetto di analogia e di astrazione, il cui utilizzo è rintracciabile tuttora in più recenti scoperte scientifiche. Oltre alla scienza, il metodo scolastico venne applicato anche agli studi di diritto, almeno a partire da Raniero Arsendi in avanti, operante nella scuola di Bologna.

Programma della seconda Tappa: 
I Lumi del Medioevo



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