La
Scolastica
L’epoca della Patristica è stata l’epoca della costruzione della società
e quindi della civiltà cristiana medioevale che poi durerà per il millennio
seguente fino a circa la scoperta dell’America 1492.
La fine della Patristica non è una archiviazione di quanto in essa è
successo, ma è l’inizio di un importante, solenne e corposo millennio di
cultura, di civiltà, di progresso al centro del quale c’è preponderante la
dimensione umana e quindi religiosa dell’uomo. È questo aspetto che darà
fastidio ai detentori del potere economico e culturale successivo, che farà di
tutto per oscurare quanto di positivo
c’è stato in questo periodo definendolo “Medioevo”, cioè periodo di
mezzo fra la cultura classica e il Rinascimento e come un intervallo
insignificante e oscuro che ha bloccato per secoli, “i secoli bui” per
l’appunto, lo sviluppo del pensiero
umano e della cultura occidentale.
Questo passaggio dall’epoca Patristica al Medioevo ha come agente
propulsore un impianto culturale, filosofico, teologico e scientifico: la
Scolastica.
La parola Scolastica deriva da Scuola, realtà che non esiste all’inizio
di questo periodo. Fino ad ora si conoscono solo piccoli e riservati gruppi di
apprendisti, allievi di qualche maestro d’arte o di filosofi. Piccole élite molto particolari e poco
presenti nel mondo conosciuto e centrate su di un Maestro che è
maestro di tutto lo scibile e al quale gli allievi si affidano totalmente e
imparano solo da lui.
Le Scuole Monastiche
Le Scuole Cattedrali
Nelle grandi città,
ma anche in alcune meno grandi, nacquero le Cattedrali e pure in esse si
svilupparono Scuole tenute dai preti: le Scuole Cattedrali.
Le Università
La Scolastica è
l’insieme delle discipline che vengono trasmesse in una Scuola e in una
Università, ciascuno da Docenti specializzati in una propria disciplina a dai
relativi Discenti.
La cura degli infermi
Ricordiamo che le
opere di misericordia sono una modalità tipicamente cristiana per diffondere la
“buona novella” agli assistiti, come agli assistenti, con le opere fatte per
amore, per amore di Dio e di conseguenza per amore del prossimo di cui siamo
responsabili una volta battezzati. È la nostra “mission” quella per la quale
siamo al mondo (sempre che sia accettata liberamente). Va comunque anche detto
che col tempo gli Stati sempre più atei o laici come vengono oggi definiti, si
sono impossessati con leggi apposite di molte di queste opere: scuole,
università, ospedali, ecc. e sono sorte molte iniziative laiche di aiuto che si
preoccupano di risolvere i bisogni dei più deboli. Molte di queste però, il
cristiano è giusto che lo sappia, sono nate per pura filantropia, non sono cioè
alimentate da un vero amore per Dio e per il prossimo, ma perseguono scopi
benefici con altri obbiettivi, specialmente le più note e le meglio
pubblicizzate e finanziate con denaro degli ignari contribuenti.
Alcuni esempi. La
più nota e reclamizzata Unicef, nata
nel 1946 per aiutare i bambini vittime della seconda guerra mondiale, premiata
con il premio Nobel nel 1965, ha fra i suoi fondatori importanti personaggi
della massoneria, gode di ingenti sostegni economici di molti stati e mescola insieme a opere lodevoli anche
iniziative di controllo delle nascite e di educazione sessuale moralmente e
cristianamente inaccettabili ma apprezzate dalle società farmaceutiche e dalle
politiche dell’Unione europea. Non ha nulla a che vedere per esempio con “i
mutilatini di don Gnocchi”. Save the Children
è sulla stessa linea, fra le altre cose si è impegnata a risolvere
radicalmente il problema della Sindrome di Down facendo sparire, prima che
nascano tutti i feti sospetti (anche senza il consenso dei genitori),
naturalmente come opera di carità (non cristiana) per far vivere meglio i
genitori e alimentare il business degli interventi abortivi sulle donne. Non ha
nulla a che vedere con la carità di
Madre Teresa di Calcutta. Amnesty international,
fondata da un cattolico nel 1961, a difesa dei perseguitati politici, si è
inoltrata nelle così dette “battaglie civili” di liberalizzazione della donna,
dell’omofobia, aborto, eutanasia, ecc. abbandonando i cristiani perseguitati in
Irak e le vittime dell’ISIS. Non ha nulla a che vedere per esempio con
l’accoglienza dei profughi a Kakuma (Sudan) dei Salesiani di Don Bosco.
La carità cristiana (le
opere di misericordia) è un’altra cosa, è l’amore di Dio che si manifesta
attraverso gli operatori di pace che saranno chiamati figli di Dio e che
operano in condizioni molto difficili e a rischio della vita, ma che Dio
conosce molte bene. (Sintesi di alcuni articoli tratti da www.lanuovabq.it “il Timone”, “il
Foglio” e da documentazioni di “pro
vita” e dei Salesiani)
Specie
Le discipline trasmesse nelle Scuole e nelle
Università
Specie
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Le fonti
del sapere che costituiscono le varie discipline che si trasmettono all’interno
delle Scuole sono:
La Divina rivelazione viene trasmessa attraverso la Sacra
Scrittura e i Padri della Chiesa che
sono coloro che sono stati a contatto diretto con chi è stato testimone della
venuta in terra del Figlio di Dio, della sua morte e della sua resurrezione. Hanno
scritto e commentato per i posteri i loro studi delle scritture e delle
testimonianze vissute. Quindi la prima fonte della Scolastica è la Patristica,
che non si chiude, ma viene travasata nella Scolastica.
Questo patrimonio culturale trasmesso
dalle Scuole e dalle Università medioevali ha come sottofondo di tutte le
discipline che vengono trasmesse una reciproca fecondazione tra Fede e Ragione.
La Fede nella Divina Rivelazione come supporto della Ragione e la Ragione come
strumento a supporto della Fede. Ora mentre per la Fede sono Autoritatas i Padri della Chiesa, per la
Ragione sono Autoritatas Platone,
Plotino e i neoplatonici.
Con il medioevo c’è la riscoperta di Aristotele che sarà la sorgente di una
nuova e più ancora feconda riflessione razionale e quindi della filosofia
medioevale. Ci sono poi i Pensatori
Latini (Cicerone e Seneca in particolare) che alimentano la Scolastica per
gli aspetti del Diritto e della Morale.
Non esistevano sue traduzioni in
latino e il greco non era conosciuto, ma esistevano due centri culturali
importanti, quello ebraico (di Mosè Maimonide studioso e traduttore di
Aristotele in latino) e quello arabo (noto per Averroè e Avicenna che studiando
Aristotele entrano in contatto con la Scolastica medioevale e contribuiscono a
farlo conoscere in Europa).
Questo è quanto ufficialmente
troviamo ancora oggi sui libri di scuola, ma vale la pena di fare più chiarezza
sul “viaggio di Aristotele verso l’Europa” e sui personaggi ai quali è
attribuito il merito di aver fatto conoscere Aristotele ad un medioevo dichiarato
“addormentato” dall’irrazionalità della religione.
Nel mondo islamico medievale, Avicenna ebbe grandi meriti sia per il
tentativo di rifondare una filosofia orientale, sia per lo sforzo proteso al
riavvicinamento del modello di Aristotele con quello di Platone, utilizzando come collante le
fondamenta della filosofia islamica a sfondo religioso Kalam. Avicenna influenzò i pensatori medievali europei, in particolar modo
per la sua dottrina sulla natura dell'anima e per quella sulla distinzione fra esistenza ed essenza.
Giacomo
Veneto (morto
a Venezia? tra il 1140 e il 1150). A lui si deve la traduzione di quasi tutta
l'opera di Aristotele, egli iniziò le traduzioni prima del 1127.
Quando si afferma che
furono gli arabi a portare Aristotele in Europa, si dimentica troppo spesso di
precisare come gli stessi arabi entrarono in possesso della cultura ellenistica
filosofica e scientifica. In realtà il movimento che portò Aristotele in Europa
fu di tipo circolare secondo l'immagine usata da Gilson. Occorre cioè
ricordare, che furono i cristiani
orientali, in particolare siriani, a tradurre in arabo l'intero patrimonio
culturale ellenistico. L'origine del movimento che fece giungere Aristotele in
Occidente è quindi da vedersi in una filosofia araba cristiana e non
mussulmana.
Differente sviluppo della filosofia nel mondo arabo.
Possiamo fare alcune
considerazioni sul diverso sviluppo che ebbe l'aristotelismo e con esso la
filosofia nel mondo occidentale cristiano e nel mondo arabo mussulmano. Se è
vero che gli arabi contribuirono insieme ai pensatori occidentali a entrare in
contatto con Aristotele, è anche vero che l'aristotelismo, e la filosofia con
esso ebbero fortune ben diverse. Nell'occidente cristiano, infatti, superate le
difficoltà iniziali, Aristotele divenne punto di partenza fondamentale per
l'elaborazione della filosofia cristiana. La sintesi tomista in particolare nel
corso dei secoli assumerà un ruolo di primo piano all'interno della Chiesa. Per
questo motivo viene indicata dallo stesso Magistero come modello da imitare:
"Nella riflessione di S. Tommaso, infatti, l'esigenza della ragione e
la forza della fede hanno trovato la sintesi più alta che il pensiero abbia mai
raggiunto, in quanto egli ha saputo difendere la radicale novità portata dalla
Rivelazione senza mai umiliare il cammino proprio della ragione"
(Giovanni Paolo II, Fides et ratio, 78).
Diverso sicuramente
risulta lo sviluppo del pensiero filosofico all'interno del mondo arabo
mussulmano. Qui non si verificò quella sintesi armonica tra ragione e fede, operata
da S. Tommaso in Occidente e alla lunga finì per prevalere un atteggiamento in cui il
Corano divenne l'unico punto di riferimento autorevole. A questo si deve
aggiungere che il testo sacro mussulmano, a differenza delle Sacre Scritture
cristiane non lasciava spazio all'interpretazione e pertanto la stessa fede non
poteva essere pensata criticamente. Si finì così per mettere sempre più in
secondo piano la riflessione filosofica, se non addirittura per abbandonarla
del tutto: "la grande civiltà araba terminò nella Cristianità. Gli
eredi di Avicenna e di Averroè sono nell'Occidente cristiano, non nel mondo
islamico. I cristiani portarono nel mondo islamico la sorgente greca, ma essa
si esaurì dopo un periodo di splendore: l'Islam si rivelò incompatibile con la
filosofia. La scelta fu di fermarsi al Corano, bloccando la dinamica del
pensiero" (Gianni Baget Bozzo, Di fronte all'Islam,
Marietti, 2001 Genova, p. 30). Il mancato sviluppo del pensiero aristotelico e
più in generale filosofico deriva quindi dall'incapacità di superare il
contrasto tra il Corano e il sapere filosofico, incapacità che viene espressa
da Chesterton con la sua consueta ironia in questi termini: "dei
filosofi maomettani possiamo dire in generale che quanti divennero dei bravi
filosofi divennero cattivi mussulmani" (vedi a questo proposito: Chesterton, Introduzione
a San Tommaso, Piemme, 1998; ma anche: Gouguenheim Sylvain – “Aristotele contro Averroè. Come cristianesimo e
Islam salvarono il pensiero greco” - Rizzoli;
Giuseppe Rizzardi “Il linguaggio religioso dell’Islam” ed.
Glossa – Il quale ci dice che la
conoscenza dell'Islam da parte della cultura europea e cristiana esige la
traduzione delle categorie religiose islamiche ermetiche dentro la cultura greco latina
razionale, cosa praticamente
impossibile).
Un’ultima
considerazione sulle differenze insanabili fra cristianesimo e islam.
Per
il cristiano la fede è centrata su Cristo (vero Dio e vero Uomo), Via, Verità e
Vita, e il cristiano crede fermamente nella sua incarnazione, passione, morte e
resurrezione (il Vangelo è solo la testimonianza di chi gli è vissuto accanto,
gli apostoli). Per il mussulmano l’unico riferimento è un libro, il Corano,
dettato a Maometto dall’arcangelo Gabriele
e che, nonostante abbia al suo interno diverse contraddizioni, deve essere assorbito
così come è, senza alcun tipo di ragionamento o interpretazione (sola Fides no
Ratio), pena la morte. Gesù è Dio d’amore. Maometto è un abile e cinico Condottiero
in armi lanciato alla conquista del mondo con le buone o con le cattive (dalla
sua biografia si sa che partecipava personalmente alla decapitazione dei suoi
nemici vinti).
La Scolastica e il metodo delle Dispute
Il Sapere scientifico e culturale all’interno delle Scuole si sviluppa
utilizzando il metodo delle “dispute” (questiones disputates), cioè dibattiti
con i quali due studenti si debbono affrontare come su di un ring, nel quale
uno spiega la propria TESI e l’altro fa le OBIEZIONI in merito. Il primo deve
saper RISPONDERE alle obiezioni con SPIEGAZIONI valide a tacitare il
compagno. Se non ci riesce viene sostituito da chi tenterà per lui di
spegnere definitivamente le obiezioni. L’insegnante funge da arbitro e fa da
AUTORITÀ insindacabile. Così fanno da autoritas
insindacabile i Padri della Chiesa su temi di dottrina, così fanno
Aristotele o altri filosofi o pensatori su temi filosofici, razionali,
giuridici o morali. Quindi il
metodo consiste nell’esporre una tesi,
gestirne le obiezioni, accettare
l’arbitraggio dell’insegnate, spiegare perché l’obiezione non è
valida e dare una risposta
definitiva e incontrovertibile (il corpo della disputa) cioè che non permetta
all’interlocutore di controbattere.
Anche le opere dei pensatori e
studiosi medioevali rispettano questo schema. Per esempio la Summa Teologica
di san Tommaso è divisa in questiones: 1. Dio esiste, 2. da alcune
considerazioni sembra che Dio non esista, 3. Dio esiste perché lo afferma La
Sacra Scrittura, 4. spiegazione del perché Dio esiste, 5. risposta inequivocabile
alle obiezioni.
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Il metodo scolastico
Classificazione delle attività che si fanno
a Scuola.
Le arti liberali: il Trivio, cioè le tre Arti o Capacità che forniscono gli
strumenti e le abilità per poter essere maestro e alunno dentro la scuola:
1. la grammatica, bisogna sapere come si parla e come si scrive,
2. la retorica, bisogna sapere come presentare gli argomenti,
3. la dialettica, bisogna sapere come difendere gli argomenti presentati da coloro che vi
si oppongono.
Le altre arti
liberali: il Quadrivio, sono poi le materie in cui ci
si cimenta, cioè il cosa studiare e sapere e sono quattro:
1. l’Aritmetica
2. la Geometria e sotto a questo
nome va tutta la Matematica
3. l’Astronomia e sotto questo nome
vanno tutte le Scienze Naturali
4. la Musica e sotto a questo
nome vanno tutte le Arti (le
Muse)
Esistono poi le
arti superiori:
1.
la Filosofia che dà l’anima a
l’impianto di tutto questo
2. la Teologia
come vertice del sapere
Giovanni Scoto Eriugena è
direttore della Scuola Palatina, voluta da Carlo Magno, presso la corte di
Carlo il Calvo.
De Divisione naturae
Il De Divisione naturae o Periphyseon di Scoto Eriugena:
a) È un’opera di capitale importanza per una filosofia sostanzialmente
spirituale, cioè come contemplazione;
b) È una pietra miliare per chi studia e ricerca con questo intendimento;
c) I suoi elementi fondamentali sono 4:
1- il
neoplatonismo greco cristianamente rielaborato;
2- la
dottrina di una natura divina;
3- la
costante preoccupazione metafisica ed insieme religioso-teologica.
4- è scritta come
un dialogo e quindi i suoi personaggi sono straordinariamente vivi.
Scoto chiama l'insieme di tutte le cose "Natura", e
poiché la natura si identifica con Dio ed è una sua Teofania (Rivelazione),
egli in essa distingue le quattro divisioni della Natura, cioè
dell'essere divino (rischiando l’accusa di Panteismo).
Tutte
le cose dipendono dalla Natura che non è creata e crea, cioè Dio
Tutte
le cose ritornano alla fine a Lui attraverso la Natura che è creata e crea,
il Logos, attraverso la Natura che è creata e non crea, le cose del
mondo e attraverso la Natura che non è creata e non crea, cioè tutto ciò
che ha concluso il suo fine e torna a Dio.
Il «Corpus
Dionysianum» dello Pseudo Dionigi l’Areopagita
Scoto è traduttore e commentatore di quest’opera che
avrà vasta influenza sino alla fine del Medioevo.
Nel Corpus Dyonisianum (un corpus di manoscritti in greco antico, i cui
autori sono incerti) viene analizzata la
dimensione dello Spirito, estranea alla filosofia antica che parlò solamente di
corpo e anima. In accordo con il
platonismo, l'anima è il punto di unione fra l'intelligibile e il principio
materiale, il sensibile. L’intelligibile sono le idee-essenze che danno forma
al corpo e al carattere di ogni persona, e sono parte di Dio che è tutte le
idee.
In una antica immagine che
accompagnava l’opera di Giovanni Scoto Eriugena “Sulle nature
dell' universo” si nota nel primo settore un
personaggio regale circondato da sette donne; al di sopra di esso è inscritto
il nome bonitas; anche al di sopra delle altre figure sono
indicati nomi che corrispondono ai sette nomi divini: justitia, virtus, ratio, veritas, essentia, vita, sapientia. Il tema non è nuovo: le sette
arti liberali, la Sapientia e le sue sette
figlie si incontrano spesso.
Nel secondo riquadro un mostro è posto all’interno di un
medaglione circondato da queste parole: materia informis;
esso simboleggia la terra « informe e vuota » della Genesi ed è formato sostanzialmente da
bocche, nasi e occhi.
Alla sua sinistra una donna regge la scritta locus; alla sua destra un vegliardo porta
l’iscrizione tempus. Così, in questo
secondo riquadro, sono rappresentati il tempo e lo spazio.
Il terzo riquadro è occupato da un insieme di quattro
miniature che raffigurano la creazione. La prima rappresenta gli angeli, la
seconda gli uccelli, la terza i pesci e la quarta le piante, gli animali e la
coppia umana.
Nell’ultimo riquadro si trova il volto aureolato di
Cristo che sostiene tutto il cosmo e lo attira a sé per mezzo di un
insieme di legami simbolici.
Contra Gotescalco
Ma Scoto Eriugena
obietta che non è possibile attribuire a Dio una "pre-destinazione"
intesa come "destinare prima", in quanto in Dio non
esiste né un prima né un dopo.
La caratteristica
essenziale dell'uomo è, per Eriugena, il libero arbitrio che è dunque la
possibilità di peccare o di non peccare, come di fruire dell'aiuto della Grazia divina
o di rifiutarla.
Giovanni Scoto Eriugena di papa Benedetto XVI
dall’ UDIENZA GENERALE in Piazza San Pietro, Mercoledì, 10
giugno 2009
Giovanni Scoto Eriugena aveva una cultura patristica, sia greca
che latina, di prima mano: conosceva infatti direttamente gli scritti dei Padri
latini e greci. Conosceva bene, fra le altre, le opere di Agostino, di
Ambrogio, di Gregorio Magno, grandi Padri dell’Occidente cristiano, ma
conosceva altrettanto bene il pensiero di Origene, di Gregorio di Nissa, di
Giovanni Crisostomo e di altri Padri cristiani di Oriente non meno
grandi.
Era un uomo eccezionale, che dominava in quel tempo anche la
lingua greca. Dimostrò un’attenzione particolarissima per San Massimo il
Confessore e, soprattutto, per Dionigi l’Areopagita. Sotto questo pseudonimo si
nasconde uno scrittore ecclesiastico del V secolo, della Siria, ma tutto il
Medioevo, e anche Giovanni Scoto Eriugena, fu convinto che questo autore fosse
identico ad un discepolo diretto di San Paolo, del quale si parla negli Atti
degli Apostoli (cfr At 17,34).
Scoto Eriugena, convinto di questa apostolicità degli scritti di
Dionigi, lo qualificava ‘autore divino’ per eccellenza; gli scritti di lui
furono perciò una fonte eminente del suo pensiero. Giovanni Scoto tradusse in latino
le sue opere. I grandi teologi medioevali, come San Bonaventura, hanno
conosciuto le opere di Dionigi tramite questa traduzione. Si dedicò per tutta
la vita ad approfondire e sviluppare il suo pensiero, attingendo a questi
scritti, al punto che ancora oggi qualche volta può essere arduo distinguere
dove abbiamo a che fare col pensiero di Scoto Eriugena e dove invece egli non
fa altro che riproporre il pensiero dello Pseudo Dionigi.
In verità, il lavoro teologico di Giovanni Scoto non ebbe molta
fortuna. Non solo la fine dell’era carolingia fece dimenticare le sue opere;
anche una censura da parte dell’Autorità ecclesiastica gettò un’ombra sulla sua
figura. In realtà, Giovanni Scoto rappresenta un platonismo radicale, che
qualche volta sembra avvicinarsi ad una visione panteistica, anche se le sue
intenzioni personali soggettive furono sempre ortodosse.
Di Giovanni Scoto Eriugena ci sono giunte alcune opere, tra le
quali meritano di essere ricordate, in particolare, il trattato "Sulla
divisione della natura" e le "Esposizioni sulla gerarchia celeste di
San Dionigi". Egli vi sviluppa stimolanti riflessioni teologiche e
spirituali, che potrebbero suggerire interessanti approfondimenti anche ai
teologi contemporanei. Mi riferisco, ad esempio, a quanto egli scrive sul
dovere di esercitare un discernimento appropriato su ciò che viene presentato
come auctoritas vera, oppure
sull’impegno di continuare a cercare la verità fino a che non se ne raggiunga
una qualche esperienza nell’adorazione silenziosa di Dio.
Il nostro autore dice: "Salus
nostra ex fide inchoat”: la nostra salvezza comincia con la fede". Non
possiamo cioè parlare di Dio partendo dalle nostre invenzioni, ma da quanto
dice Dio di se stesso nelle Sacre Scritture. Poiché tuttavia Dio dice solo la
verità, Scoto Eriugena è convinto che l’autorità e la ragione non possano mai
essere in contrasto l’una con l’altra; è convinto che la vera religione e la
vera filosofia coincidono. In questa prospettiva scrive: "Qualunque tipo
di autorità che non venga confermata da una vera ragione dovrebbe essere considerata
debole… Non è infatti vera autorità se non quella che coincide con la verità
scoperta in forza della ragione, anche se si dovesse trattare di un’autorità
raccomandata e trasmessa per l’utilità dei posteri dai santi Padri" (I, PL
122, col 513BC).
Conseguentemente, egli ammonisce: "Nessuna autorità ti
intimorisca o ti distragga da ciò che ti fa capire la persuasione ottenuta
grazie ad una retta contemplazione razionale. Infatti l’autentica autorità non
contraddice mai la retta ragione, né quest’ultima può mai contraddire una vera
autorità. L’una e l’altra provengono senza alcun dubbio dalla stessa fonte, che
è la sapienza divina" (I, PL 122, col 511B). Vediamo qui una coraggiosa affermazione del valore della ragione,
fondata sulla certezza che l’autorità vera è ragionevole, perchè Dio è la
ragione creatrice.
La Scrittura stessa non sfugge, secondo Eriugena, alla necessità
di essere accostata utilizzando il medesimo criterio di discernimento. La
Scrittura infatti – sostiene il teologo irlandese riproponendo una riflessione
già presente in Giovanni Crisostomo – pur provenendo da Dio, non sarebbe stata
necessaria se l’uomo non avesse peccato. Si deve dunque dedurre che la
Scrittura fu data da Dio con un intento pedagogico e per condiscendenza, perché
l’uomo potesse ricordare tutto ciò che gli era stato impresso nel cuore fin dal
momento della sua creazione "ad immagine e somiglianza di Dio" (cfr
Gn 1,26) e che la caduta originale gli aveva fatto dimenticare.
Scrive l’Eriugena nelle Expositiones: "Non è l’uomo che è
stato creato per la Scrittura, della quale non avrebbe avuto bisogno se non
avesse peccato, ma è piuttosto la Scrittura – intessuta di dottrina e di
simboli – che è stata data per l’uomo. Grazie ad essa infatti la nostra natura
razionale può essere introdotta nei segreti dell’autentica pura contemplazione
di Dio" (II, PL 122, col 146C). La parola della Sacra Scrittura purifica
la nostra ragione un po’ cieca e ci aiuta a ritornare al ricordo di ciò che
noi, in quanto immagine di Dio, portiamo nel nostro cuore, vulnerato purtroppo
dal peccato.
Derivano da qui alcune conseguenze ermeneutiche, circa il modo
di interpretare la Scrittura, che possono indicare ancora oggi la strada giusta
per una corretta lettura della Sacra Scrittura. Si tratta infatti di scoprire
il senso nascosto nel testo sacro e questo suppone un particolare esercizio
interiore grazie al quale la ragione si apre al cammino sicuro verso la verità.
Tale esercizio consiste nel coltivare una costante disponibilità alla
conversione. Per giungere infatti alla visione in profondità del testo è
necessario progredire simultaneamente nella conversione del cuore e
nell’analisi concettuale della pagina biblica sia essa di carattere cosmico,
storico o dottrinale. È infatti solo grazie alla costante purificazione sia
dell’occhio del cuore che dell’occhio della mente che si può conquistare
l’esatta comprensione.
Questo cammino impervio, esigente ed entusiasmante, fatto di
continue conquiste e relativizzazioni del sapere umano, porta la creatura
intelligente fin sulla soglia del Mistero divino, dove tutte le nozioni
accusano la propria debolezza e incapacità e impongono perciò, con la semplice
forza libera e dolce della verità, di andare sempre oltre tutto ciò che viene
continuamente acquisito. Il riconoscimento adorante e silenzioso del Mistero,
che sfocia nella comunione unificante, si rivela perciò come l’unica strada di
una relazione con la verità che sia insieme la più intima possibile e la più
scrupolosamente rispettosa dell’alterità.
In realtà, l’intero pensiero teologico di Giovanni Scoto è la
dimostrazione più palese del tentativo di esprimere il dicibile dell’indicibile
Dio, fondandosi unicamente sul mistero del Verbo fatto carne in Gesù di
Nazareth. Le tante metafore da lui utilizzate per indicare questa realtà
ineffabile dimostrano quanto egli sia consapevole dell’assoluta inadeguatezza
dei termini con cui noi parliamo di queste cose.
E tuttavia resta l’incanto e quell’atmosfera di autentica
esperienza mistica che si può di tanto in tanto toccare con mano nei suoi
testi. Basti citare, a riprova di ciò, una pagina del De divisione naturae che
tocca in profondità l’animo anche di noi credenti del XXI secolo:
"Non si deve desiderare altro se non la gioia della verità
che è Cristo, né altro evitare se non l’assenza di Lui. Questa infatti si
dovrebbe ritenere causa unica di totale ed eterna tristezza. Toglimi Cristo e
non mi rimarrà alcun bene né altro mi atterrirà quanto la sua assenza. Il più
grande tormento di una creatura razionale sono la privazione e l’assenza di
Lui" (V, PL 122, col
989a).
Sono parole che possiamo fare nostre, traducendole in preghiera
a Colui che costituisce l’anelito anche del nostro cuore. (Papa Benedetto XVI,
10 giugno 2009)
Sacra
Scrittura, Tradizione e Magistero
Dal testo di “Teologia morale fondamentale” di Aurelio Fernandez, ed. Ares estraiamo questa sintesi delle fonti fondamentali della nostra fede.
(Aosta, 1033 -Canterbury, 1109),
Teologo, filosofo, monaco e arcivescovo, considerato tra i
massimi esponenti del pensiero medievale di area
cristiana, Anselmo è noto soprattutto per i suoi argomenti a dimostrazione
dell'esistenza di Dio. Nato da una nobile
famiglia di Aosta all'età di 60 anni ricevette l'importante carica di arcivescovo di
Canterbury.
La riflessione di Anselmo è basata sulla Ragione per comprendere i dati
di Fede (Credo per capire, “credo ut intelligam”).
Si articolò su:
3. problemi dottrinali sulla Trinità
4. problemi dottrinali sul Libero arbitrio
5. problemi dottrinali sul Peccato originale
6. problemi dottrinali sulla Grazia
Il Monologium
è l’Opera in cui
Anselmo analizza le prove dell’esistenza di Dio a posteriori. Si parte dal mondo, si vedono i
gradi di perfezione della realtà e da questi si risale all’esistenza di Dio
(similmente ad Aristotele e al suo motore immobile). Dalle perfezioni visibili
si può risalire alla perfezione invisibile, cioè a Dio, come san Paolo aveva
già detto nella lettera ai romani.
Il Proslogion
è l’Opera più famosa
nella quale Anselmo vuol dimostrare l’esistenza di Dio a priori, senza riferimenti
alla realtà, ma solo ragionando.
Infatti
se pensa che Dio non c’è deve comunque esserci nella sua mente un concetto di
Dio, altrimenti non potrebbe negarlo. E se c’è nella sua mente c’è anche nella
realtà.
Anche
chi non crede non può non pensare che ci sia un essere del quale non esista
nulla di maggiore di lui. Dio è l’essere di cui non si può pensare nulla di più
grande.
Questo essere più
grande in assoluto, se lo puoi pensare vuol dire che esiste anche nella realtà.
Quello che penso esiste, altrimenti non potrei pensarlo.
La Libertà
Dio sa tutto perché
è svincolato dal tempo. Non prevede e stabilisce cosa io faccio o debbo fare,
ma semplicemente lo sa. Dio non vede le cose accadere perché in Lui il tempo
non esiste, o meglio l’ha creato per noi, ma Lui non lo subisce.
Sant'Anselmo d’Aosta di papa Benedetto XVI
dall’UDIENZA GENERALE
di Mercoledì, 23 settembre 2009
Cari fratelli e sorelle, a Roma, sul
colle dell’Aventino, si trova l'Abbazia benedettina di Sant’Anselmo. Come sede
di un Istituto di studi superiori e dell'Abate Primate dei Benedettini
Confederati, essa è un luogo che unisce in sé la preghiera, lo studio e il
governo, proprio le tre attività che caratterizzarono la vita del Santo al
quale è dedicata: Anselmo d’Aosta di cui ricorre quest’anno il IX centenario
della morte. Le molteplici iniziative, promosse specialmente dalla diocesi di
Aosta per questa fausta ricorrenza hanno evidenziato l’interesse che continua a
suscitare questo pensatore medievale. Egli è noto anche come Anselmo di Bec e
Anselmo di Canterbury a motivo delle città con le quali è stato in rapporto.
Chi è questo personaggio al quale tre località, lontane tra loro e collocate in
tre Nazioni diverse – Italia, Francia, Inghilterra –, si sentono
particolarmente legate? Monaco di intensa vita spirituale, eccellente educatore
di giovani, teologo con una straordinaria capacità speculativa, saggio uomo di
governo ed intransigente difensore della libertas
Ecclesiae, Anselmo é una delle personalità eminenti del Medioevo, che
seppe armonizzare tutte queste qualità grazie a una profonda esperienza
mistica, che sempre ebbe a guidarne il pensiero e l’azione.
Sant’Anselmo nacque nel 1033 (o all’inizio del
1034) ad Aosta, primogenito di una famiglia nobile. Il padre era uomo rude,
dedito ai piaceri della vita e dissipatore dei suoi beni; la madre, invece, era
donna di elevati costumi e di profonda religiosità (cfr Eadmero, Vita s.
Anselmi, PL 159, col
49). Fu lei a prendersi cura della prima formazione umana e religiosa del
figlio, che affidò, poi, ai Benedettini di un priorato di Aosta. Anselmo, che
da bambino – come narra il suo biografo - immaginava l’abitazione del buon Dio
tra le alte e innevate vette delle Alpi, sognò una notte di essere invitato in
questa reggia splendida da Dio stesso, che si intrattenne a lungo ed
affabilmente con lui e alla fine gli offrì da mangiare “un pane candidissimo” (ibid.,
col 51). Questo sogno gli lasciò la convinzione di essere chiamato a compiere
un’alta missione. All’età di quindici anni, chiese di essere ammesso
nell’Ordine benedettino, ma il padre si oppose con tutta la sua autorità e non
cedette neppure quando il figlio gravemente malato, sentendosi vicino alla
morte, implorò l'abito religioso come supremo conforto. Dopo la guarigione e la
scomparsa prematura della madre, Anselmo attraversò un periodo di dissipazione
morale: trascurò gli studi e, sopraffatto dalle passioni terrene, diventò sordo
al richiamo di Dio. Se ne andò da casa e cominciò a girare per la Francia in
cerca di nuove esperienze. Dopo tre anni, giunto in Normandia, si recò
nell’Abbazia benedettina di Bec, attirato dalla fama di Lanfranco da Pavia,
priore del monastero. Fu per lui un incontro provvidenziale e decisivo per il
resto della sua vita. Sotto la guida di Lanfranco, Anselmo riprese infatti con
vigore gli studi e, in breve tempo, diventò non solo l’allievo prediletto, ma
anche il confidente del maestro. La sua vocazione monastica si riaccese e, dopo
attenta valutazione, all’età di 27 anni, entrò nell’Ordine monastico e venne
ordinato sacerdote. L’ascesi e lo studio gli aprirono nuovi orizzonti,
facendogli ritrovare, in grado ben più alto, quella familiarità con Dio che
aveva avuto da bambino.
Quando, nel 1063, Lanfranco diventò
abate di Caen, Anselmo, dopo appena tre anni di vita monastica, fu nominato
priore del monastero di Bec e maestro della scuola claustrale, rivelando doti
di raffinato educatore. Non amava i metodi autoritari; paragonava i giovani a
piccole piante che si sviluppano meglio se non sono chiuse in serra e concedeva
loro una “sana” libertà. Era molto esigente con se stesso e con gli altri
nell’osservanza monastica, ma anziché imporre la disciplina si impegnava a
farla seguire con la persuasione. Alla morte dell’abate Erluino, fondatore
dell’abbazia di Bec, Anselmo venne eletto unanimemente a succedergli: era il
febbraio 1079. Intanto numerosi monaci erano stati chiamati a Canterbury per
portare ai fratelli d’oltre Manica il rinnovamento in atto nel Continente. La
loro opera fu ben accetta, al punto che Lanfranco da Pavia, abate di Caen,
divenne il nuovo Arcivescovo di Canterbury e chiese ad Anselmo di trascorrere
un certo tempo con lui per istruire i monaci e aiutarlo nella difficile
situazione in cui si trovava la sua comunità ecclesiale dopo l’invasione dei
Normanni. La permanenza di Anselmo si rivelò molto fruttuosa; egli guadagnò
simpatia e stima, tanto che, alla morte di Lanfranco, fu scelto a succedergli
nella sede arcivescovile di Canterbury. Ricevette la solenne consacrazione
episcopale nel dicembre del 1093.
Anselmo si impegnò immediatamente
in un’energica lotta per la libertà della Chiesa, sostenendo con coraggio
l’indipendenza del potere spirituale da quello temporale. Difese la Chiesa
dalle indebite ingerenze delle autorità politiche, soprattutto dei re Guglielmo
il Rosso ed Enrico I, trovando incoraggiamento e appoggio nel Romano Pontefice,
al quale Anselmo dimostrò sempre una coraggiosa e cordiale adesione. Questa
fedeltà gli costò, nel 1103, anche l’amarezza dell’esilio dalla sua sede di
Canterbury. E soltanto quando, nel 1106, il re Enrico I rinunciò alla pretesa
di conferire le investiture ecclesiastiche, come pure alla riscossione delle
tasse e alla confisca dei beni della Chiesa, Anselmo poté far ritorno in
Inghilterra, accolto festosamente dal clero e dal popolo. Si era così
felicemente conclusa la lunga lotta da lui combattuta con le armi della
perseveranza, della fierezza e della bontà. Questo santo Arcivescovo che tanta
ammirazione suscitava intorno a sé, dovunque si recasse, dedicò gli ultimi anni
della sua vita soprattutto alla formazione morale del clero e alla ricerca
intellettuale su argomenti teologici. Morì il 21 aprile 1109, accompagnato
dalle parole del Vangelo proclamato nella Santa Messa di quel giorno: “Voi
siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; e io preparo per voi
un regno, come il Padre l'ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere
alla mia mensa nel mio regno…” (Lc 22,28-30). Il sogno
di quel misterioso banchetto, che da piccolo aveva avuto proprio all’inizio del
suo cammino spirituale, trovava così la sua realizzazione. Gesù, che lo aveva
invitato a sedersi alla sua mensa, accolse sant’Anselmo, alla sua morte, nel
regno eterno del Padre.
“Dio, ti prego, voglio conoscerti,
voglio amarti e poterti godere. E se in questa vita non sono capace di ciò in
misura piena, possa almeno ogni giorno progredire fino a quando giunga alla
pienezza” (Proslogion, cap.14). Questa preghiera lascia comprendere
l’anima mistica di questo grande Santo dell’epoca medievale, fondatore della
teologia scolastica, al quale la tradizione cristiana ha dato il titolo di
“Dottore Magnifico” perché coltivò un intenso desiderio di approfondire i
Misteri divini, nella piena consapevolezza, però, che il cammino di ricerca di
Dio non è mai concluso, almeno su questa terra. La chiarezza e il rigore logico
del suo pensiero hanno avuto sempre come fine di “innalzare la mente alla
contemplazione di Dio” (Ivi, Proemium). Egli afferma chiaramente che chi
intende fare teologia non può contare solo sulla sua intelligenza, ma deve
coltivare al tempo stesso una profonda esperienza di fede. L’attività del
teologo, secondo sant’Anselmo, si sviluppa così in tre stadi: la fede, dono
gratuito di Dio da accogliere con umiltà; l’esperienza, che
consiste nell’incarnare la parola di Dio nella propria esistenza quotidiana; e
quindi la vera conoscenza, che non è
mai frutto di asettici ragionamenti, bensì di un’intuizione contemplativa.
Restano, in proposito, quanto mai utili anche oggi, per una sana ricerca teologica
e per chiunque voglia approfondire le verità della fede, le sue celebri parole:
“Non tento, Signore, di penetrare la tua profondità, perché non posso neppure
da lontano mettere a confronto con essa il mio intelletto; ma desidero
intendere, almeno fino ad un certo punto, la tua verità, che il mio cuore crede
e ama. Non cerco infatti di capire per credere, ma credo per capire” (Ivi,
1).
Cari fratelli e sorelle, l’amore
per la verità e la costante sete di Dio, che hanno segnato l’intera esistenza
di sant’Anselmo, siano uno stimolo per ogni cristiano a ricercare senza mai
stancarsi una unione sempre più intima con Cristo, Via, Verità e Vita. Inoltre,
lo zelo pieno di coraggio che ha contraddistinto la sua azione pastorale, e che
gli ha procurato talora incomprensioni, amarezze e perfino l’esilio, sia un
incoraggiamento per i Pastori, per le persone consacrate e per tutti i fedeli
ad amare la Chiesa di Cristo, a pregare, a lavorare e soffrire per essa, senza
mai abbandonarla o tradirla. Ci ottenga questa grazia la Vergine Madre di Dio,
verso la quale sant’Anselmo nutrì tenera e filiale devozione. “Maria, te il mio
cuore vuole amare – scrive san’Anselmo – te la lingua mia desidera ardentemente
lodare”.
La Scolastica: i suoi periodi – sintesi finale
Dal
greco scholastikos (che significa letteralmente
"educato in una scuola", "istruito"), la filosofia
scolastica cercava di conciliare la fede cristiana con
un sistema di pensiero
razionale, specialmente quello della filosofia
greca. Il "periodo scolastico" si riferisce soprattutto al
medio e Basso
Medioevo in
Occidente, quando il Cristianesimo conosce
una rinascita intellettuale ed è sfidato dal pensiero razionale dell'Islam.
Cronologicamente, esso copre il periodo che va dall'VIII
secolo al Rinascimento.
Si
suddivide in:
·
Epoca pre-scolastica (dall'VIII secolo al IX secolo) con la
fondazione della scola
Palatina diretta prima da Alcuino di
Yorke in seguito da Giovanni Scoto Eriugena;
·
Alta Scolastica (dall'X secolo al XII secolo) la cui
figura di spicco fu Anselmo
d'Aosta, a cui seguirono altri come Pietro
Abelardo;
·
Bassa Scolastica, ossia il periodo d'oro coincidente con
il XIII secolo, grazie alla
diffusione del pensiero di Alberto Magno e di Tommaso
d'Aquino, a cui si contrappone specularmente quello di Bonaventura;
·
Tarda Scolastica, collocabile dopo Duns Scoto, il cui
principale esponente fu Guglielmo di Ockham.
La
scolastica ebbe origine dall'istituzione delle scholae, ossia di un sistema
scolastico-educativo diffuso in tutta Europa, e che garantiva una sostanziale
uniformità di insegnamento. Esso fu il primo, e forse unico, sistema scolastico
organizzato su vasta scala della storia dell’Occidente. Era stato Carlo
Magno a
volerlo, il quale, dando avvio alla "rinascita carolingia",
aveva fondato ad Aquisgrana la Schola palatina,
per favorire l'istruzione delle genti e la diffusione del sapere allo scopo di
dare unità e compattezza al Sacro Romano Impero.
A tal fine si era servito dei monaci benedettini,
i quali avevano salvaguardato la cultura dei classici tramite la ricopiatura
dei testi antichi, non solo di quelli religiosi ma anche scientifici e
letterari: le loro abbazie divennero così i centri del nuovo sapere medievale.
Gli
insegnamenti erano divisi in due rami:
Preposto
all'insegnamento di queste arti cosiddette "liberali"
era anticamente lo Scholasticus,
a cui in seguito si affiancò un Magister
artium, di grado superiore, esperto in teologia.
Le lezioni si svolgevano dapprima nei monasteri,
poi progressivamente nelle scuole
annesse alle cattedrali, e infine nelle università.
Caratteristiche e metodi della Scolastica
Il
carattere fondamentale della filosofia scolastica consisteva nell'illustrare e
difendere le verità di fede con l'uso della ragione,
verso la quale si nutriva un atteggiamento positivo. A tal fine, essi
privilegiarono la sistematizzazione del sapere già esistente rispetto
all'elaborazione di nuove conoscenze.
L'intento
degli scolastici era quello di sviluppare un sapere armonico, integrando la rivelazione cristiana con
i sistemi filosofici del mondo greco-ellenistico, convinti della loro
compatibilità, e anzi vedendo nel sapere dei classici, in particolare in quello
dei grandi pensatori come Socrate, Platone, Aristotele
e Plotino,
una via in grado di arrivare all'accettazione e spiegazione dei dogmi cattolici.
L'utilizzo
della ragione,
che essi vedevano sapientemente esercitata nei testi greci, veniva messo in
rapporto con la fede non
allo scopo di dimostrarne i fondamenti, quanto piuttosto per contrastare le
tesi eretiche e cercare di convertire gli atei.
Dallo
studio dei testi greci nasce il problema degli universali (cioè del logos,
della forma) che viene sviluppato in modi differenti per tutta la scolastica.
·
forma ante rem: l'essenza è prima della realtà (o
della materia) come ritenevano Platone e Agostino d'Ippona;
·
forma post rem: un semplice nome, ovvero convenzione
che deduciamo dall'analisi delle caratteristiche di una serie.
Tommaso,
sulla scorta di Boezio,
riteneva che gli universali esistessero sia ante
rem come Idea nella
mente di Dio,
sia in re come forma delle
varie realtà, sia post rem come concetto formulato nella mente
dell'uomo.
A
Tommaso, sostanzialmente fautore di un indirizzo filosofico realista,
si contrapposero i sostenitori del nominalismo,
secondo cui l'universale era solamente un flatus
vocis, cioè appunto un nome e
nient'altro.
Poiché
del resto la scolastica si sviluppò in varie scholae europee e quindi in realtà diverse,
era inevitabile che in ogni schola, avendo esse differenti esigenze e
finalità, i pensieri e i metodi acquistassero caratteristiche diverse. Vi erano
quindi scholae più vive e
attive dove spesso si accendevano contrasti tra gli intellettuali più
conservatori e i maestri d'arte, i più innovativi.
Gli
scolastici svilupparono in tal modo un peculiare metodo di indagine
speculativa, noto come quaestio,
basato sul commento e la discussione dei testi all'interno delle prime università.
I vari dibattiti, tuttavia, dovevano seguire delle regole e dei riferimenti
precisi, tra i quali vi era in particolare la logica
formale di Aristotele.
Valevano poi le auctoritas,
che erano rappresentate dagli scritti dei Padri della Chiesa (filosofia patristica),
dai testi sacri,
e da scritti della tradizione cristiana.
Le auctoritas erano, in sostanza, la decisione di affidarsi
ad una voce ufficiale e decisa dai concili, per cui esisteva l'auctoritas in
campo medico (Galeno), quella in campo metafisico
(Aristotele)
e quella in campo astronomico (Tolomeo).
Come
già aveva fatto notare Giovanni Scoto Eriugena,
però, non era la ragione a fondarsi sull'autorità, ma l'autorità a fondarsi
sulla ragione: gli Scolastici così mantennero sempre una forte coscienza
critica verso le fonti del loro sapere. Sarà il declino della fiducia nella
ragione, a partire da autori come Guglielmo di Ockham,
che porterà alla fine della Scolastica e dello stesso Medioevo.
La Scolastica e la scienza
La
filosofia scolastica era particolarmente incentrata sullo studio del dogma
religioso cristiano, ma non solo. Gli scolastici diedero infatti un forte
impulso anche allo sviluppo della scienza.
Nel
XII-XIII secolo, nell'ambito degli studi teologici che si tenevano nelle prime
Università europee come Bologna, Parigi, Oxford,
si svilupparono diverse ricerche sulla natura,
ovvero sul creato considerato opera di Dio,
che avrebbero dovuto portare all'intelligibilità dell'opera di Dio creatore.
Per i filosofi scolastici della natura la creazione era come un libro aperto
che andava letto e compreso, un libro contenente leggi naturali la cui
transitorietà era riconducibile a regole immutabili inscritte da Dio al momento
della creazione. Tali studiosi pensavano che conoscere quelle leggi avrebbe
consentito di elevare l'intelligenza umana e di avvicinarla sempre più a Dio.
In
quest'ambito valevano come auctoritas anche filosofi dell'epoca greca e
persino pensatori di origine islamica.
Due
furono in particolare le scuole di pensiero, attestate peraltro su posizioni
alquanto distanti tra di loro, che elaborarono ognuna un proprio metodo scientifico:
quella di Parigi, facente capo ad Alberto
Magno, seguito dal suo discepolo Tommaso
d'Aquino, e quella di Oxford, dove fu attivo Ruggero
Bacone. Costoro, pur restando
fedeli al metodo aristotelico, si occuparono di filosofia della natura basandosi
sulle osservazioni degli eventi e contestando alcuni elementi anti-scientifici
del pensiero
greco. Tommaso in particolare, noto per aver riformulato in chiave
nuova la concezione aristotelica della verità come corrispondenza dell'intelletto alla
realtà,
sviluppò il concetto di analogia e
di astrazione,
il cui utilizzo è rintracciabile tuttora in più recenti scoperte scientifiche. Oltre
alla scienza, il metodo scolastico venne applicato anche agli studi di diritto,
almeno a partire da Raniero
Arsendi in
avanti, operante nella scuola di Bologna.
Programma della seconda Tappa:
I Lumi del Medioevo
Programma della seconda Tappa:
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