Gli Universali
La disputa
medioevale sugli Universali nasce da molto prima, cioè dalla filosofia greca
classica e si protrarrà dopo il medioevo fino ai nostri giorni.
Cosa sono questi
Universali. Partiamo dalla Logica di Aristotele, in essa si parlava della
Logica del Concetto e si distinguevano i Generi e le Specie e si affermava che
ogni essere del nostro pensiero può essere Specie di un Genere a lui superiore
e Genere di una Specie a lui inferiore.
Esempio: gli animali
sono una Specie degli Esseri viventi, ma sono anche Genere degli Esseri
terrestri che sono una Specie di Animali
Severino Boezio (Roma, 475 – Pavia, 525)
L'Isagoge o "Introduzione"
alle Categorie aristoteliche, scritto da Porfirio in greco e tradotto in seguito in latino da Boezio, divenne un testo classico
del pensiero
medioevale, utilizzato in tutte le scuole ed università europee, e ponendosi come pietra miliare dello
sviluppo degli studi filosofico-teologici della logica, e del problema degli
"universali" in filosofia.
Molti
autori, come lo stesso Boezio, Averroè, Pietro
Abelardo e Duns
Scoto, svilupparono delle riflessioni su questo libro. Guglielmo di Ockham lo incorporò nel suo Summa Logicae.
In altre parole, i
Concetti o i Generi e le Specie, in realtà cosa sono, si domanda Boezio. Qual è
il loro status ontologico, cioè sono solo nella nostra mente o esistono davvero
nella realtà a prescindere dalla nostra mente. Sono separati dalle cose o sono
dentro le cose.
Il realismo estremo di Platone
Platone per esempio sugli Universali ci ha detto
che essi esistono indipendentemente dalla nostra mente. Per esempio l’idea di
Uomo sta nell’Iperuranio, cioè in un’altra realtà, e la nostra mente lo va a
pescare nel ricordo che ne ha di essa quando la sua anima era nell’Iperuranio.
Sintetizzando l’Universale è ciò che possiamo dire di più cose, è ciò che è
predicabile di più enti. Gli Universali, per Platone, sarebbero continuati ad
esistere anche se non ci fosse più nessun uomo sulla terra, cioè nessun
cervello in grado di pensare.
Il realismo moderato di Aristotele
Aristotele invece affermava che l’idea o l’essenza delle cose sta nelle cose stesse. Si formarono così gruppi di pensatori chiamati “realisti” che sostenevano che gli Universali sono realtà esistenti di per sé e indipendenti dalla nostra mente. Si divisero in Realisti Estremi (o platonici) e in Realisti moderati (o aristotelici).
Il concetto di “persona”
Boezio è poi noto per aver definito, per la prima volta, il concetto di Persona: una “sostanza individua di natura razionale
riferibile agli uomini, agli angeli e a Dio” e poi : “la persona non si può mai applicare agli
universali, ma soltanto ai particolari e agli individui”.
Il De
consolatione philosophiae
Scritti durante la carcerazione (incarcerato a Pavia con la
falsa accusa di praticare arti magiche e
poi giustiziato),
i cinque libri della De consolatione si
presentano come un dialogo nel quale la Filosofia dimostra che l'afflizione
patita da Boezio per la sventura che lo ha colpito (il carcere) non ha in
realtà bisogno di alcuna consolazione, rientrando nell'ordine naturale delle
cose, governate dalla Provvidenza divina.
Se la fortuna ci rende infelice tanto quando ci abbandona durante
la nostra vita, quanto il fatto che, morendo, dobbiamo abbandonare i doni che
quella ci ha elargito in vita, allora la nostra felicità non può consistere in
quei doni effimeri, in cose mortali, e neppure nella gloria, nel potere e nella
fama, ma deve essere dentro noi stessi. Si tratta allora di conoscere
«l'aspetto della felicità vera», dal momento che ciascuno «per vie diverse,
cerca pur sempre di giungere a un unico fine, che è quello della felicità. Tale
fine consiste nel bene: ognuno, una volta che l'abbia ottenuto, non può più
desiderare altro». Dimostrato che «con le ricchezze non si ottiene
l'autosufficienza, non la potenza con i regni, non con le cariche il rispetto,
non con la gloria la fama, né la gioia con i piaceri», tutti beni imperfetti,
occorre determinare la forma del bene perfetto, «questa perfezione della
felicità».
Ora, il bene perfetto, il «Sommo Bene», è Dio, dal momento
che, secondo Boezio, sviluppando una concezione neoplatonica «la ragione
dimostra che Dio è buono in modo da poterci convincere che in lui vi è anche il
bene perfetto. Se infatti non fosse tale, non potrebbe essere l'origine di ogni
cosa; vi sarebbe altro, migliore di lui, in possesso del bene perfetto, a lui
precedente e più prezioso; è chiaro che le cose perfette precedono quelle
imperfette. Pertanto, per non procedere all'infinito col ragionamento, dobbiamo
ammettere che il sommo Dio sia del tutto pieno del bene sommo e perfetto; ma
s'era stabilito che il bene perfetto sia la vera felicità: dunque la vera
felicità è posta nel sommo Dio».
Boezio pone poi il problema di come «pur esistendo il buon
reggitore delle cose, i mali esistano comunque ed siano impuniti [...] e non
solo la virtù non venga premiata ma sia persino calpestata dai malvagi e punita
al posto degli scellerati». La risposta, secondo lo schema platonico, della
Filosofia, è che tutti, buoni e malvagi, tendono al bene; i buoni lo
raggiungono, i malvagi non riescono a raggiungerlo per loro propria incapacità,
mancanza di volontà, debolezza. Perché infatti i malvagi «abbandonata la virtù,
ricercano i vizi? Per ignoranza di ciò che è bene? Ma cosa c'è di più debole
della cecità dell'ignoranza? Oppure sanno cosa cercare ma il piacere li
allontana dalle retta via? Anche in questo caso si dimostrano deboli, a causa
dell'intemperanza che impedisce loro di opporsi al male? oppure abbandonano il
bene consapevolmente e si volgono al vizio? Ma anche così cessano di essere
potenti e cessano persino di essere del tutto». Infatti il bene è l'essere e
chi non raggiunge il bene è privo necessariamente dell'essere: dell'uomo ha
solo la parvenza: «tu potresti chiamare cadavere un uomo morto, ma non
semplicemente uomo; così, i viziosi sono malvagi ma nego che essi siano in senso assoluto».
Boezio tratta poi anche il problema della prescienza e provvidenza divina e del libero arbitrio. Definito il caso «un
evento inaspettato prodotto da cause che convergono in cose fatte per uno scopo
determinato», per Boezio il concorrere e confluire di quelle cause è «il
prodotto di quell'ordine che, procedendo per inevitabile connessione, discende
dalla provvidenza disponendo le cose in luoghi e in tempi determinati». Il
caso, dunque, non esiste in sé stesso, ma è l'evento di cui gli uomini non
riescono a stabilire le cause che lo hanno determinato. È compatibile allora il
libero arbitrio dell'uomo con la presenza della prescienza divina e a cosa
dovrebbe servire pregare che qualcosa avvenga o meno, se già tutto è stabilito?
La risposta della Filosofia è che la previdenza di Dio non dà necessità agli
eventi umani: essi restano la conseguenza della libera volontà dell'uomo anche
se sono previsti da Dio.
Ma questo stesso problema, così posto dall'uomo, non è
nemmeno corretto. Dio è infatti eterno, nel senso che non è soggetto al tempo;
per lui non esiste il passato e il futuro, ma un eterno presente; il mondo,
invece, anche se non avesse avuto nascita, sarebbe perpetuo, ossia soggetto al
mutamento e dunque soggetto al tempo; nel mondo esiste pertanto un passato e un
futuro. La conoscenza che Dio ha delle cose non è a rigore un "vedere
prima", una pre-videnza, ma una provvidenza, un vedere nell'eterno
presente tanto gli eventi necessari, come sono quelli regolati dalle leggi
fisiche, che gli eventi determinati dalla libera volontà dell'uomo.
La fortuna della Consolazione fu notevole per tutto il Medioevo,
così da fare del suo autore una delle fonti più autorevoli del pensiero
cristiano, per quanto l'opera si fondi sulle tradizioni stoiche e soprattutto
neoplatoniche; essa tuttavia si manifesta come ultima autorevole affermazione
della libertà del pensiero in complementarità con la fede espressa in sue altre
opere, come dimostra il fatto che Boezio non abbia mai citato Cristo in un'opera di tale natura e composta
a un passo dalla morte - tanto che già nel X
secolo il monaco sassone Bovo di Corvey dirà, a questo riguardo, che nella Consolazione sembra che la Filosofia abbia
scacciato Cristo. Allievo della scuola neoplatonica di Atene, Boezio trovò negli insegnamenti
della classica tradizione neoplatonica esempi di direttiva morale pienamente
sufficienti rispetto a quanto poteva trovare nel Cristianesimo, del quale, non
a caso, come mostrano i suoi Opuscoli
teologici, si occupò soltanto per problemi relativi unicamente alla dogmatica e mai alla morale e al destino
dell'uomo.
Pietro Abelardo e il Concettualismo
Pietro Abelardo (1072 – 1142) è
il padre del Concettualismo, per lui gli Universali esistono, ma non
esterni alla mente, piuttosto sono Concetti della nostra mente. È l’Uomo che
notando più caratteristiche comuni fra alcuni enti che in qualche modo si
assomigliano, elabora con la sua mente il concetto di libro o di pianta o di
Uomo o di Bellezza, ecc.
Gli universali sono
quindi un “sermo”, cioè un discorso, che ragionando sulle cose ne coglie, per
astrazione, degli elementi comuni e forma nella sua mente l’idea (il Concetto o
l’Universale) di libro, di pianta, di Uomo, di Bellezza, ecc. Quindi gli
Universali sono legati alla mente dell’Uomo, senza queste menti non esisterebbero,
ma al contempo sono legati alle cose, con un termine che verrà elaborato nel
‘900 da Edmund Husserl, padre della fenomenologia,
la ”Intenzionalità” (L'intenzionalità,
nella specifica corrente filosofica della fenomenologia,
è l'attitudine del pensiero ad avere
sempre un contenuto e una intenzione e a dirigersi necessariamente verso un oggetto, senza il quale il pensiero stesso non sussisterebbe).
Pietro Abelardo fu un filosofo, teologo e compositore francese, fu uno dei più
importanti e famosi filosofi e pensatori del medioevo. Per alcune idee fu considerato eretico dalla Chiesa cattolica in base al Concilio Lateranense II del 1139. Nel corso della sua vita si mosse da una città all'altra fondando
scuole e dando così i primi impulsi alla diffusione del pensiero filosofico e
scientifico. Conquistò masse di allievi grazie all'eccezionale abilità nel
padroneggiare la logica e la dialettica, e all'acume critico con cui analizzava la Bibbia e i Padri della Chiesa. Ebbe come temibile avversario Bernardo di Chiaravalle, che non gli risparmiò nemmeno le accuse di eresia. Celebre è la sua
storia d'amore con Eloisa, da molti considerato il primo
esempio documentato di amore declinato in chiave "moderna", come passione e dedizione
assoluta e reciproca.
Guglielmo Ockham e il Nominalismo
Il
Nominalismo infine afferma che l’essere esiste solo in forma individuale
e gli Universali sono “flatus vocis”, cioè gli Universali non esistono, son
solo una espressione vocale. La realtà è fatta solo di enti individuali. Per
esempio un bicchiere è una cosa, l’altro bicchiere dello stesso servizio è si
uguale, ma è un altro ente, un’altra cosa. Quando usiamo un’idea o un concetto
o un universale noi lo facciamo per pura comodità (convenzione) per intenderci,
ma è solo un suono della voce.
Guglielmo Ocknam (Ockham, 1285 – Monaco di Baviera, 1349) detto Princeps Nominalium,
ma anche doctor invincibilis, entrò nell'ordine francescano in giovane età, studiò all'Università di Oxford fra il 1307 e il 1318, intraprendendo l'insegnamento, in seguito, nella medesima università.
Scrive molte opere e le principali, la Summa logicae, e un Tractatus de sacramentis sono giudicate eretiche in più punti e poi a causa
di contrasti con il Papa questi arriverà a scomunicarlo.
Conseguenze del nominalismo
In
ambito Gnoseologico, cioè della conoscenza, ci poniamo la domanda: il pensiero e
il linguaggio che usiamo per esprimere la realtà rispecchiano davvero la realtà
così come è oppure no. C’è continuità tra il pensiero e l’essere o c’è
separazione. La filosofia realistica ci dice che pensiero ed essere sono
correlati, il pensiero è una fotografia della realtà. Al mio pensare l’Uomo,
corrisponde una realtà Uomo reale ed esistente. Oppure è un puro concetto che
ogni uomo ed ogni società ed in ogni tempo lo elabora come meglio crede, cioè
senza nessun riferimento preciso e incontrovertibile?
Questi ragionamenti
portano inevitabilmente a pesanti conseguenze etiche e morali. Per esempio se
l’Uomo è un concetto e non esiste la natura umana, ognuno di noi costruisce con
la sua mente il proprio concetto di Uomo, così come delle altre cose che
esistono, tutto è relativo al mio individuale modo di pensare, senza limiti di
sorta, morali o altro.
Conseguenze di
questo modo di considerare gli Universali è per esempio l’attuale ragionamento
che sentiamo nei “talk show”: ma l’uomo ammalato grave è un vero uomo? Va
trattato come un uomo sano e giovane e professionalmente produttivo, oppure è ormai
da considerare come un vegetale da curare e allora vale la pena di tenerlo in
vita a pesare sul bilancio della sanità a scapito di altri malati più giovani e
produttivi la cui veloce guarigione è un beneficio per tutti?.
Se invece gli
universali non sono in balia dei singoli uomini (e potremmo anche dire dei soli
uomini di potere), ma sono una realtà, cioè per esempio l’Uomo è invece parte
di una realtà umana che considera uomini tutti gli esseri umani dal loro
concepimento fino alla loro morte naturale, con la loro intera dignità e
considerazione sia che siano ammalti nel corpo e nella mente o che siano
moribondi o schiavi o embrioni?
Vediamo qui quali siano
le conseguenze etiche e morali che comporta il considerare gli Universali in un
modo o nell’altro.
Ci sono poi anche conseguenze metafisiche. Se il
linguaggio (voces) e la realtà (res) non corrispondono, non è più possibile la
metafisica, perché i miei concetti, le mie astrazioni non riescono più a cogliere
la realtà. La Sostanza di aristotelica memoria non la posso più nemmeno pensare
perché non potrò mai andare oltre la fisica (cioè nella metafisica), non potrò
mai immaginare e quindi elaborare teorie per capire ciò che al momento non vedo
e non tocco, ma sento che potrebbero esistere e spiegarmi la realtà.
Questa disputa sugli
Universali è centrale nel pensiero medioevale anche e forse soprattutto perché
ha forti implicazioni e conseguenze teologiche.
Se consideriamo per
esempio l’Universale Natura e pensiamo che non ci può dire nulla perché in esso
esistono solo cose strettamente individuali e non appartenenti a nessuna
Categoria o Specie. Diventa allora ancora più impossibile pensare e dire
qualcosa sul mistero trinitario di Dio. Se l’Universale Natura non c’è, come
posso io dire che un Dio è tre Persone distinte ma in una unica Natura, quella
divina. Infatti dai Nominalisti vengono pensati come tre dei e come tre dei considerati. Tre individui
distinti che è impossibile inserire in un concetto più ampio, quello della loro
Natura. Anche il mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio è inconcepibile
perché non posso ammettere che in Gesù ci siano due nature, una divina e una
umana.
Senza realismo, la
fede non è più sorretta dalla ragione e diventa fideismo cieco non degno
dell’uomo razionale in grado di fare razionalmente e liberamente le sue scelte (agire
a ragion veduta) e di prendersi le sue responsabilità. Infatti è il fideismo
essenzialmente che non è accettato dai pagani e dai non credenti in genere,
mentre una volta accettata con umiltà la rivelazione divina tutto cambia perché
ci si accorge che Gesù Cristo preso come modello di Via, Verità e Vita è una
cosa non solo ragionevole, ma anche che riempie la propria vita e le dà un
significato pieno e profondo. Questo vuol dire rendere ragione della propria
fede ed essere in grado di aiutare gli altri a comprenderla (farla propria).
I passi della disputa sugli Universali
Rivediamo in sintesi
la storia di questa disputa sugli Universali che è una significativa
caratteristica del medioevo che parte da Platone e non è ancora conclusa oggi.
Platone è un realista estremo. Gli Universali
esistono realmente, stanno nell’Iperuranio, cioè fuori dalla nostra mente; li
riandiamo a prendere come modelli quando ne abbiamo bisogno, ripescandoli dalla
nostra memoria che li ha visti quando la nostra anima era ancora
nell’Iperuranio ed esistono quindi fuori dalle cose.
Aristotele è un realista moderato. Gli Universali
esistono, danno forma e sostanza ad ogni cosa ed esistono nella cosa stessa e
quindi fuori dalla nostra mente che li legge nelle cose.
I Sofisti sono dei Nominalisti, ed in particolare
Protagora e Gorgia, perché sono convinti della separazione netta fra pensiero e
realtà. Il linguaggio per loro non è più specchio della realtà. Sono quindi dei
Nominalisti che attraverso particolari abilità nell’uso del linguaggio fanno
apparire nell’interlocutore quello che vogliono, cioè quella realtà che a loro
conviene. Se infatti non ho più la realtà a testimoniare quello che dico, tutto
sta nella mia abilità a far credere quello che voglio. La loro filosofia dice
che la verità non esiste e se anche esistesse non sarebbe comprensibile e chi
eventualmente la comprendesse non sarebbe in grado di spiegarla. Quello che la
mente pensa non trova un corrispettivo nella realtà, esiste come un muro
separatore, e a questo punto il linguaggio diventa onnipotente: chi meglio
parla comanda, chi è più convincente domina, diventa giusto quello che è
proposto con le migliori regole della retorica e sbagliato quello che non è
presentato con le stesse abilità. I dibattiti televisivi fra politici lo
dimostrano, vince, non chi ha più competenze e saggezza, ma chi si sa “vendersi
meglio”.
Sant’Agostino esprime un realismo estremo perché per lui gli
Universali esistono e sono i Pensieri di Dio. Agostino, che è anche
soprannominato il Platone cristiano, fa coincidere l’Iperuranio con la mente di
Dio. Cioè i modelli attraverso i quali Dio crea le cose. Quindi l’idea di Uomo,
cioè l’Universale Uomo, esiste nei pensieri di Dio prima della creazione
dell’Uomo concreto. “Facciamo l’Uomo a nostra immagine e somiglianza” vuol dire
che prima lo pensa e poi lo crea. L’Universale quindi esiste “ante rem”, prima
della cosa creata. Ogni uomo è tale perché partecipa all’idea di uomo come l’ha
veduta o pensata Dio. Ogni uomo partecipa alla natura umana, che sia sano o
malato, embrione o moribondo, assassino o pazzo.
Sant’Anselmo, realista, porta il discorso
sul pensiero che non può che pensare qualcosa che esiste. Quando penso a Dio
come l’ente del quale non si può pensare nulla di maggiore, questo Dio non può
non esistere. È un’idea pienamente realista. Ciò che la nostra mente coglie è un
qualcosa che deve avere per forza un corrispettivo nella realtà. È sempre il
problema del rapporto fra pensiero ed essere che si ripresenta sotto forme
sempre nuove in tutti i secoli della storia.
San Tommaso, realista
moderato, si appoggia come sua modalità ad Aristotele che vede gli
Universali nelle cose, “in re”, ma osserva che esistono poi anche nella nostra
mente “post rem” quando essa li fa propri, come pure esistono “ante rem” nei
pensieri di Dio come affermava Sant’Agostino. Quindi Dio non fa le cose a caso
o per impulso, ma le organizza e le
orienta o predispone per uno scopo preciso che l’uomo scoprirà mano a mano che
cercherà di capire chi è come usare della propria libertà.
Questi sono i punti
salienti della disputa medioevale sugli Universali, che ha già le sue radici
nella filosofia classica, che caratterizzerà tutto il medioevo e influenzerà
pesantemente tutte le età successive sia nel campo teologico che in quello puramente filosofico e speculativo, sconfinando
inevitabilmente in quello morale, sociale e politico.
Gli ordini mendicanti
Nel campo culturale del Medioevo entra una nuova forma di
vita religiosa che si prende un ruolo formidabile e indelebile per tutto il
resto della nostra storia. A cavallo fra il primo e il secondo millennio, i
luoghi della cultura medioevale, cioè le Cattedrali cittadine con le loro
scuole cattedrali e i loro canonici (i preti) e i Monasteri e Abbazie nelle
campagne con le loro scuole monastiche o conventuali tenute dai monaci, erano
le sorgenti della cultura sia religiosa che filosofica, come pure letteraria e
scientifica.
Per quanto riguarda la diffusione della cultura questa per i
monaci è un servizio che riguarda l’opera di misericordia: “istruire gli
ignoranti” auspicata da san Benedetto, ma che viene dopo l’orazione e dopo il
lavoro nei campi (ora et labora). Per i canonici è pure un’opera di
misericordia, cioè un atto d’amore nei confronti dei fratelli che non possono
permettersi un maestro come i ricchi, ma che viene dopo gli obblighi del
ministero sacerdotale, la cura delle anime e la gestione della Cattedrale e dei
suoi servizi alla popolazione.
In questo
contesto storico e culturale nascono gli Ordini Mendicanti. Gli ordini
mendicanti, sorgono tra il XII ed il XIII secolo in seno alla Chiesa cattolica,
sono ordini religiosi ai quali la
regola primitiva impone l'emissione di un voto di povertà che implica
la rinuncia a ogni proprietà non solo per
gli individui, ma anche per i conventi. Sono frati
itineranti e che traggono sostentamento unicamente dalla raccolta delle elemosine (questua). Sono i francescani, i
domenicani, i carmelitani, i servi di Maria, gli agostiniani, ecc. che si
sganciano dagli obblighi dei monaci e dei preti dei Monasteri, delle Abbazie e
delle Cattedrali per dedicarsi esclusivamente alla cura delle anime, all’insegnamento
e alla predicazione.
Nelle scuole sono gli allievi che vanno dai maestri che non
possono muoversi dalle loro sedi. I frati degli ordini mendicanti, sono invece liberi
e vanno loro incontro alla gente, girando da una città all’altra.
Nel fermarsi nelle città danno vita a degli studi che poi
diventano Università, le grandi Università che arriveranno fino ai nostri
giorni.
Occasione
storica della fondazione dei primi ordini mendicanti (l'Ordo Praedicatorum di Domenico di Guzmán, l'Ordo Minorum di Francesco d'Assisi) fu la
grave situazione creatasi in seno alla Chiesa in seguito alla massiccia
penetrazione fra i ceti più umili (soprattutto in Italia e nella Francia meridionale) della
propaganda pauperistica dei catari e dei valdesi e alle
loro accuse alla Chiesa di gestire i suoi beni non con vero spirito di carità
verso i più poveri.
Francesco,
Domenico e i loro seguaci rappresentarono la risposta della Chiesa a queste
accuse, vere in diversi casi, riportando all'interno della Chiesa, l'ideale evangelico dell'imitazione di Cristo con una vita semplice, fatta di povertà e penitenza, predicazione e opere di carità. Questa
scelta venne fatta in netta contrapposizione alla frequente evidenza della
ricchezza del clero secolare, non legato da alcun voto di
povertà, e dei monaci del tempo, tenuti alla povertà individuale ma non a
quella collettiva.
Francescani
e Domenicani, fortemente sostenuti dai papi Innocenzo III e Onorio
III, con il loro rigore e la loro assoluta povertà, diedero all'ortodossia
cattolica un contributo decisivo per combattere ad armi pari la predicazione ereticale e ricondurre in seno alla Chiesa il movimento
pauperistico.
Nel corso
degli anni successivi gli ordini mendicanti si diffusero soprattutto nelle zone
urbane, che proprio in quel periodo stavano conoscendo una notevole espansione: furono accolti favorevolmente dalla
popolazione sia per il loro rigore che per il fatto di non pretendere decime e tributi.
Fondamentale
fu il loro contributo allo sviluppo del pensiero teologico e filosofico del
Medioevo latino; le grandi menti che elaborarono l'alta Scolastica e insegnarono nelle Università provenivano
proprio da questi ordini (Alberto
Magno e Tommaso
d'Aquino erano
domenicani, francescani erano invece Bonaventura da Bagnoregio e Giovanni Duns Scoto). Ben
presto i frati si dedicarono all'insegnamento e alla direzione spirituale,
furono consiglieri di re e principi, pratica precedentemente affidata ai monaci benedettini.
I Domenicani
Sant’Alberto Magno, frate Domenicano e poi Vescovo di Colonia
e maestro di San Tommaso d’Aquino e San Tommaso stesso sono i più noti e i più
determinanti.
Sant’Alberto Magno, detto Doctor Universalis, (Lauingen, 1206 –Colonia, 1280), fu un religioso domenicano tedesco,
poi Vescovo di Colonia.
•
È
considerato il più grande filosofo e teologo tedesco del medioevo, sia per
la sua grande erudizione che per il suo impegno nel tenere distinto l'ambito
filosofico da quello teologico.
•
Egli ha consentito all'Occidente, come fecero anche Severino Boezio e Giacomo da Venezia, di penetrare nei testi di
Aristotele.
•
•
È venerato come santo dalla Chiesa cattolica che dal 1567 lo considera anche dottore della Chiesa.
I Francescani
Alessandro di Hales inglese, frate e poi Vescovo (resistente al passaggio dal
neoplatonismo agostiniano all’aristotelismo dell’acquinate), e san Bonaventura
da Bagnoregio diventato poi Vescovo e Cardinale.
•
studiò dapprima nel monastero di
Hales e
•
compì poi
gli studi a Parigi, dove insegnò per molti anni,
•
entrò nell'ordine francescano nel 1236, così da essere il primo dei filosofi e teologi
appartenenti a quest'Ordine,
•
fu studiato con attenzione da San Bonaventura.
•
L'opera a lui attribuita, la Summa universae theologiae o
Summa fratris Alexandri Halensis è in realtà un testo che
raccoglie, oltre ai suoi contributi, anche quelli dei suoi
allievi, venendo così a costituire il resoconto del pensiero teologico
francescano della metà del XIII secolo. È noto
per il suo tentativo di resistere all'aristotelismo di Avicenna e di
san Tommaso.
San Bonaventura
da Bagnoregio
•
Soprannominato Doctor
Seraphicus,
•
Fu ministro
generale dell’Ordine Francescano,
San Bonaventura “Doctor Seraphicus”
I suoi punti forti:
1.
Conoscere Dio per
mezzo del pensiero,
2.
i gradi di ascesa
a Dio,
3.
Si conosce grazie
all’illuminazione divina,
4.
La libertà umana
è orientata dalla scintilla divina che abbiamo nella coscienza.
San Bonaventura da Bagnoregio, nell’epoca che precede la
nascita degli ordini mendicanti, cioè quando filosofia si faceva solo nei
Monasteri e nelle Cattedrali, si occupa del principale tema filosofico e
teologico, cioè le domande su Dio. Si rifà a sant’Anselmo (monaco e frate
benedettino) e al suo argomento ontologico che afferma che Dio è ciò di cui non si può pensare niente di maggiore. Qualunque
cosa realmente esistente sarebbe maggiore se Dio fosse una realtà solo pensata
perché possederebbe anche l’essere, quindi necessariamente Dio deve esistere.
Bonaventura fa parte di quella corrente, soprattutto
francescana, che sostiene la necessità di rimanere sulla scia di Sant’Agostino
ancorati al pensiero neoplatonico. La possibilità di conoscere e provare
l’esistenza di Dio, più che per mezzo dei nostri sensi che osservano il creato
e quindi Dio suo creatore, provare e conoscere Dio per mezzo del pensiero che
coglie Dio nella maniera di gran lunga più nobile e degna di Lui. Dio colto dal
pensiero e non dalla materia che ci circonda, cioè in modo diretto e non indiretto
attraverso le cose che pare svilire sia Dio che l’Uomo che lo cerca.
Bonaventura elabora una serie di gradi per l’ascesa a Dio che
passano attraverso la sensibilità, la contemplazione intellettuale e finalmente
(terzo stadio) la mistica. Vediamo anche qui l’influsso neoplatonico della
corrente francescana della filosofia scolastica nella quale la dimensione
razionale occupa l’ultimo posto. Cioè la ragione non si sposa pienamente con il
soprannaturale. L’incontro fra la scienza, la ragione e la fede si ferma alle
soglie di un ultimo stadio più perfetto, quello mistico, più affettivo che
razionale.
Dalle domande su Dio, Bonaventura passa alle domande sul
mondo. Era in atto una forte disputa sull’eternità del mondo e una altrettanto
forte resistenza del neoplatonismo agostiniano a cedere il passo
all’aristotelismo che poi adotterà san
Tommaso d’Acquino.
I filosofi cristiani, da credenti, sapevano bene che il mondo
non poteva essere eterno e nemmeno esistere da sempre, la rivelazione divina
aveva insegnato che Dio creò il mondo all’inizio dei secoli e lo creò dal
nulla, ma si ponevano la domanda: dal punto di vista razionale si può
ipotizzare che il mondo sia eterno senza che questo ripugni alla ragione?
I filosofi di scuola francescana, legati al neoplatonismo,
credono per fede che il mondo non è eterno, ma pensano che razionalmente
parlando il mondo potrebbe essere anche considerato eterno. Questo perché la
ragione è in secondo piano rispetto alla fede e la ragione diventa valido
strumento per la ricerca della verità solo se illuminata dalla rivelazione
divina.
I filosofi
di scuola domenicana, legati invece all’aristotelismo, sono di parere contrario.
Per Bonaventura non si può pensare di fare filosofia
seriamente e profondamente secondo verità se non si usa la ragione come uno strumento
che ha bisogno di essere corretto e illuminato dalla luce di Dio (scintilla
nella coscienza per orientarci nella via del bene). In altre parole, per
raggiungere la verità la sola ragione non è sufficiente. È anche un modo per
rimarcare il fatto che l’Uomo non può salvarsi da solo come invece Pelagio
voleva sostenere.
Nell’Uomo la conoscenza è davvero tale quando la ragione è
illuminata dalla luce divina che permea la mente e la trae dall’errore. Ci sono
nella visione agostiniana e in quella francescana di Bonaventura delle cose che
si possono conoscere direttamente senza l’aiuto dei sensi e dell’esperienza,
grazie all’illuminazione divina, come l’esistenza di Dio e anche l’esistenza e
le qualità dell’anima, senza quindi un ragionamento. Questa illuminazione mi fa
conoscere Dio e chi sono io.
Anche la realtà che passa a me attraverso i sensi e la
materia ha bisogno di una illuminazione soprannaturale per non essere tratta in
inganno.
La mia libertà, orientata dalla scintilla divina, è la guida
che fa si che la mia coscienza possa camminare nella via del bene.
San Bonaventura nell’Angelus di Benedetto XVI
Oggi (giovedì 15 luglio 2010) a Castel Gandolfo
il Papa ha ricordato prima della preghiera dell'Angelus il santo cardinale
francescano Bonaventura da Bagnoregio, uno dei teologi che più furono studiati
dal giovane Ratzinger. Ecco il testo del messaggio odierno, in cui il Papa
commenta le letture per mezzo della teologia cristocentrica e francescana del
grande Dottore Serafico:
“Nel calendario liturgico il 15 luglio è la memoria
di San Bovanentura da Bagnoregio, francescano, Dottore della Chiesa, successore
di San Francesco d’Assisi alla guida dell’Ordine dei Frati Minori.
Egli
scrisse la prima biografia ufficiale del Poverello, e alla fine della vita fu
anche Vescovo di questa Diocesi di Albano. In una sua lettera, Bonaventura
scrive: «Confesso davanti a Dio che la
ragione che mi ha fatto amare di più la vita del beato Francesco è che essa
assomiglia agli inizi e alla crescita della Chiesa» (Epistula de
tribus quaestionibus, in Opere di San Bonaventura. Introduzione generale,
Roma 1990, p. 29). Queste parole ci rimandano direttamente al Vangelo di oggi,
di questa domenica, che ci presenta il primo invio in missione dei Dodici
Apostoli da parte di Gesù. «Gesù chiamò a sé i Dodici – narra san Marco – e
prese a mandarli a due a due … E ordinò loro di non prendere per il viaggio
nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di
calzare sandali e di non portare due tuniche» (Mc 6,7-9).
Francesco d’Assisi, dopo la sua conversione, praticò
alla lettera questo Vangelo, diventando un testimone fedelissimo di Gesù; e
associato in modo singolare al mistero della Croce, fu trasformato in un «altro
Cristo», come proprio san Bonaventura lo presenta.
Tutta la
vita di san Bonaventura, come pure la sua teologia hanno quale centro
ispiratore Gesù Cristo.
Questa centralità di Cristo la
ritroviamo nella seconda Lettura della Messa odierna (Ef 1,3-14), il celebre
inno della Lettera di san Paolo agli Efesini, che inizia così: «Benedetto sia
Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni
benedizione spirituale nei cieli in Cristo». L’Apostolo mostra quindi come si è
realizzato questo disegno di benedizione, in quattro passaggi che cominciano
tutti con la stessa espressione «in Lui», riferita a Gesù Cristo. «In Lui» il
Padre ci ha scelti prima della creazione del mondo; «in Lui» abbiamo la
redenzione mediante il suo sangue; «in Lui» siamo diventati eredi, predestinati
ad essere «lode della sua gloria»; «in Lui» quanti credono nel Vangelo ricevono
il sigillo dello Spirito Santo. Questo
inno paolino contiene la visione della storia che san Bonaventura ha
contribuito a diffondere nella Chiesa: tutta la storia ha come centro Cristo,
il quale garantisce anche novità e rinnovamento ad ogni epoca. In Gesù Dio ha
detto e dato tutto, ma poiché Egli è un tesoro inesauribile, lo Spirito Santo
non finisce mai di rivelare e di attualizzare il suo mistero. Perciò l’opera di
Cristo e della Chiesa non regredisce mai, ma sempre progredisce.
Cari amici, invochiamo Maria Santissima, che domani
celebreremo quale Vergine del Monte Carmelo, affinché ci aiuti, come san
Francesco e san Bonaventura, a rispondere generosamente alla chiamata del
Signore, per annunciare il suo Vangelo di salvezza con le parole e prima di
tutto con la vita”. (Vedi anche: Joseph
Ratzinger “San
Bonaventura. La
teologia della storia” Porziuncola
Edizioni. Il volume – ormai
considerato un classico sul pensiero di Bonaventura – propone uno stimolante
profilo della sua riflessione sulla storia. Il percorso si snoda attraverso lo
studio degli aspetti culturali e religiosi della "societas
christiana" del secolo XIII e l’analisi del dibattito sorto – in tale
contesto – sulla missione del francescanesimo e sul ruolo del sapere filosofico
e teologico. Un contributo fondamentale per comprendere una fase decisiva della
civiltà europea.)
San Francesco d’Assisi
Dall’UDIENZA GENERALE in Aula Paolo VI Mercoledì, 27 gennaio 2010
Cari fratelli e sorelle,
in
una recente catechesi, ho già illustrato il ruolo
provvidenziale che l’Ordine dei Frati Minori e l’Ordine dei Frati Predicatori,
fondati rispettivamente da san Francesco d’Assisi e da san Domenico da Guzman,
ebbero nel rinnovamento della Chiesa del loro tempo. Oggi vorrei presentarvi la
figura di Francesco, un autentico “gigante” della santità, che continua ad
affascinare moltissime persone di ogni età e di ogni religione.
“Nacque
al mondo un sole”. Con queste parole, nella Divina Commedia (Paradiso,
Canto XI), il sommo poeta italiano Dante Alighieri allude alla nascita di
Francesco, avvenuta alla fine del 1181 o agli inizi del 1182, ad Assisi.
Appartenente a una ricca famiglia – il padre era commerciante di stoffe –,
Francesco trascorse un’adolescenza e una giovinezza spensierate, coltivando gli
ideali cavallereschi del tempo. A vent’anni prese parte ad una campagna
militare, e fu fatto prigioniero. Si ammalò e fu liberato. Dopo il ritorno ad
Assisi, cominciò in lui un lento processo di conversione spirituale, che lo
portò ad abbandonare gradualmente lo stile di vita mondano, che aveva praticato
fino ad allora. Risalgono a questo periodo i celebri episodi dell’incontro con
il lebbroso, a cui Francesco, sceso da cavallo, donò il bacio della pace, e del
messaggio del Crocifisso nella chiesetta di San Damiano. Per tre volte il
Cristo in croce si animò, e gli disse: “Va’, Francesco, e ripara la mia Chiesa
in rovina”. Questo semplice avvenimento della parola del Signore udita nella
chiesa di S. Damiano nasconde un simbolismo profondo. Immediatamente san
Francesco è chiamato a riparare questa chiesetta, ma lo stato rovinoso di
questo edificio è simbolo della situazione drammatica e inquietante della
Chiesa stessa in quel tempo, con una fede superficiale che non forma e non
trasforma la vita, con un clero poco zelante, con il raffreddarsi dell’amore;
una distruzione interiore della Chiesa che comporta anche una decomposizione
dell’unità, con la nascita di movimenti ereticali. Tuttavia, in questa Chiesa
in rovina sta nel centro il Crocifisso e parla: chiama al rinnovamento, chiama
Francesco ad un lavoro manuale per riparare concretamente la chiesetta di san
Damiano, simbolo della chiamata più profonda a rinnovare la Chiesa stessa di
Cristo, con la sua radicalità di fede e con il suo entusiasmo di amore per
Cristo. Questo avvenimento, accaduto probabilmente nel 1205, fa pensare ad un
altro avvenimento simile verificatosi nel 1207: il sogno del Papa Innocenzo
III. Questi vede in sogno che la Basilica di San Giovanni in Laterano, la
chiesa madre di tutte le chiese, sta crollando e un religioso piccolo e
insignificante puntella con le sue spalle la chiesa affinché non cada. E’
interessante notare, da una parte, che non è il Papa che dà l’aiuto affinché la
chiesa non crolli, ma un piccolo e insignificante religioso, che il Papa
riconosce in Francesco che gli fa visita. Innocenzo III era un Papa potente, di
grande cultura teologica, come pure di grande potere politico, tuttavia non è
lui a rinnovare la Chiesa, ma il piccolo e insignificante religioso: è san
Francesco, chiamato da Dio. Dall’altra parte, però, è importante notare che san
Francesco non rinnova la Chiesa senza o contro il Papa, ma solo in comunione
con lui. Le due realtà vanno insieme: il Successore di Pietro, i Vescovi, la
Chiesa fondata sulla successione degli Apostoli e il carisma nuovo che lo
Spirito Santo crea in questo momento per rinnovare la Chiesa. Insieme cresce il
vero rinnovamento. […] Francesco si sentì chiamato a vivere nella povertà e a
dedicarsi alla predicazione. […] Il Poverello di Assisi aveva compreso che ogni
carisma donato dallo Spirito Santo va posto a servizio del Corpo di Cristo, che
è la Chiesa; pertanto agì sempre in piena comunione con l’autorità
ecclesiastica.
Ritorniamo
alla vita di san Francesco. Poiché il padre Bernardone gli rimproverava troppa
generosità verso i poveri, Francesco, dinanzi al Vescovo di Assisi, con un
gesto simbolico si spogliò dei suoi abiti, intendendo così rinunciare
all’eredità paterna: come nel momento della creazione, Francesco non ha niente,
ma solo la vita che gli ha donato Dio, alle cui mani egli si consegna. Poi
visse come un eremita, fino a quando, nel 1208, ebbe luogo un altro avvenimento
fondamentale nell’itinerario della sua conversione. Ascoltando un brano del
Vangelo di Matteo – il discorso di Gesù agli apostoli inviati in missione –,Altri
compagni si associarono a lui, e nel 1209 si recò a Roma, per sottoporre al
Papa Innocenzo III il progetto di una nuova forma di vita cristiana. Ricevette
un’accoglienza paterna da quel grande Pontefice, che, illuminato dal Signore,
intuì l’origine divina del movimento suscitato da Francesco. Nella vita dei
santi non c’è contrasto tra carisma profetico e carisma di governo e, se
qualche tensione viene a crearsi, essi sanno attendere con pazienza i tempi
dello Spirito Santo.
In
realtà, alcuni storici nell’Ottocento e anche nel secolo scorso hanno cercato
di creare dietro il Francesco della tradizione, un cosiddetto Francesco
storico, così come si cerca di creare dietro il Gesù dei Vangeli, un cosiddetto
Gesù storico. Tale Francesco storico non sarebbe stato un uomo di Chiesa, ma un
uomo collegato immediatamente solo a Cristo, un uomo che voleva creare un
rinnovamento del popolo di Dio, senza forme canoniche e senza gerarchia. La
verità è che san Francesco ha avuto realmente una relazione immediatissima con
Gesù e con la parola di Dio, che voleva seguire sine glossa, così com’è,
in tutta la sua radicalità e verità. […] E’ anche vero che non aveva intenzione
di creare un nuovo ordine, ma solamente rinnovare il popolo di Dio per il
Signore che viene. Ma capì con sofferenza e con dolore che tutto deve avere il
suo ordine, che anche il diritto della Chiesa è necessario per dar forma al
rinnovamento e così realmente si inserì in modo totale, col cuore, nella
comunione della Chiesa, con il Papa e con i Vescovi. Sapeva sempre che il
centro della Chiesa è l'Eucaristia, dove il Corpo di Cristo e il suo Sangue
diventano presenti. Tramite il Sacerdozio, l'Eucaristia è la Chiesa. Dove
Sacerdozio e Cristo e comunione della Chiesa vanno insieme, solo qui abita
anche la parola di Dio. Il vero Francesco storico è il Francesco della Chiesa e
proprio in questo modo parla anche ai non credenti, ai credenti di altre
confessioni e religioni.
Francesco e i suoi frati, sempre più numerosi, si stabilirono alla Porziuncola, o chiesa di Santa Maria degli Angeli, luogo sacro per eccellenza della spiritualità francescana. Anche Chiara, una giovane donna di Assisi, di nobile famiglia, si mise alla scuola di Francesco. Ebbe così origine il Secondo Ordine francescano, quello delle Clarisse, un’altra esperienza destinata a produrre frutti insigni di santità nella Chiesa.
[…]
Nel 1219 Francesco ottenne il permesso di recarsi a parlare, in Egitto, con il
sultano musulmano Melek-el-Kâmel, per predicare anche lì il Vangelo di Gesù.
Desidero sottolineare questo episodio della vita di san Francesco, che ha una
grande attualità. In un’epoca in cui era in atto uno forte scontro tra il
Cristianesimo e l’Islam, Francesco, armato volutamente solo della sua fede e
della sua mitezza personale, percorse con efficacia la via del dialogo. Le
cronache ci parlano di un’accoglienza benevola e cordiale ricevuta dal sultano
musulmano. È un modello al quale anche oggi dovrebbero ispirarsi i rapporti tra
cristiani e musulmani: promuovere un dialogo nella verità, nel rispetto
reciproco e nella mutua comprensione (cfr Nostra Aetate, 3). Sembra poi
che nel 1220 Francesco abbia visitato la Terra Santa, gettando così un seme,
che avrebbe portato molto frutto: i suoi figli spirituali, infatti, fecero dei
Luoghi in cui visse Gesù un ambito privilegiato della loro missione. Con
gratitudine penso oggi ai grandi meriti della Custodia francescana di Terra
Santa. Rientrato in Italia, Francesco consegnò il governo dell’Ordine al suo
vicario, fra Pietro Cattani, mentre il Papa affidò alla protezione del Cardinal
Ugolino, il futuro Sommo Pontefice Gregorio IX, l’Ordine, che raccoglieva
sempre più aderenti. Da parte sua il Fondatore, tutto dedito alla predicazione
che svolgeva con grande successo, redasse una Regola, poi approvata dal
Papa.
Nel
1224, nell’eremo della Verna, Francesco vede il Crocifisso nella forma di un
serafino e dall’incontro con il serafino crocifisso, ricevette le stimmate;
egli diventa così uno col Cristo crocifisso: un dono, quindi, che esprime la
sua intima identificazione col Signore. La morte di Francesco – il suo transitus
- avvenne la sera del 3 ottobre 1226, alla Porziuncola. Dopo aver benedetto i
suoi figli spirituali, egli morì, disteso sulla nuda terra. Due anni più tardi
il Papa Gregorio IX lo iscrisse nell’albo dei santi. Poco tempo dopo, una
grande basilica in suo onore veniva innalzata ad Assisi, meta ancor oggi di
moltissimi pellegrini, che possono venerare la tomba del santo e godere la
visione degli affreschi di Giotto, pittore che ha illustrato in modo magnifico
la vita di Francesco.
[…]
Dall’amore per Cristo nasce l’amore verso le persone e anche verso tutte le
creature di Dio. Ecco un altro tratto caratteristico della spiritualità di
Francesco: il senso della fraternità universale e l’amore per il creato, che
gli ispirò il celebre Cantico delle creature. È un messaggio molto
attuale. Come ho ricordato nella mia recente Enciclica Caritas in veritate,
è sostenibile solo uno sviluppo che rispetti la creazione e che non danneggi
l’ambiente (cfr nn. 48-52), e nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace
di quest’anno ho sottolineato che anche la costruzione di una pace solida è
legata al rispetto del creato. Francesco ci ricorda che nella creazione si
dispiega la sapienza e la benevolenza del Creatore. La natura è da lui intesa
proprio come un linguaggio nel quale Dio parla con noi, nel quale la realtà
diventa trasparente e possiamo noi parlare di Dio e con Dio.
Cari
amici, Francesco è stato un grande santo e un uomo gioioso. La sua semplicità,
la sua umiltà, la sua fede, il suo amore per Cristo, la sua bontà verso ogni
uomo e ogni donna l’hanno reso lieto in ogni situazione. Infatti, tra la
santità e la gioia sussiste un intimo e indissolubile rapporto. Uno scrittore
francese ha detto che al mondo vi è una sola tristezza: quella di non essere
santi, cioè di non essere vicini a Dio. Guardando alla testimonianza di san
Francesco, comprendiamo che è questo il segreto della vera felicità: diventare
santi, vicini a Dio!
Ci
ottenga la Vergine, teneramente amata da Francesco, questo dono. Ci affidiamo a
Lei con le parole stesse del Poverello di Assisi: “Santa Maria Vergine, non vi
è alcuna simile a te nata nel mondo tra le donne, figlia e ancella
dell’altissimo Re e Padre celeste, Madre del santissimo Signor nostro Gesù
Cristo, sposa dello Spirito Santo: prega per noi... presso il tuo santissimo
diletto Figlio, Signore e Maestro” (Francesco di Assisi, Scritti, 163).
San Domenico di Guzman
Dall’UDIENZA GENERALE in Aula Paolo VI Mercoledì, 3 febbraio 2010
Cari
fratelli e sorelle,
la settimana scorsa ho presentato la
luminosa figura di Francesco d’Assisi, quest’oggi vorrei parlarvi di un altro
santo che, nella stessa epoca, ha dato un contributo fondamentale al
rinnovamento della Chiesa del suo tempo. Si tratta di san Domenico, il
fondatore dell’Ordine dei Predicatori, noti anche come Frati Domenicani. Il suo
successore nella guida dell’Ordine, il beato Giordano di Sassonia, offre un
ritratto completo di san Domenico nel testo di una famosa preghiera: “Infiammato
dello zelo di Dio e di ardore soprannaturale, per la tua carità senza confini e
il fervore dello spirito veemente ti sei consacrato tutt’intero col voto della
povertà perpetua all’osservanza apostolica e alla predicazione evangelica”. E’
proprio questo tratto fondamentale della testimonianza di Domenico che viene
sottolineato: parlava sempre con Dio e di Dio. Nella vita dei
santi, l’amore per il Signore e per il prossimo, la ricerca della gloria di Dio
e della salvezza delle anime camminano sempre insieme.
Domenico nacque in Spagna, a Caleruega,
intorno al 1170. Apparteneva a una nobile famiglia della Vecchia Castiglia e,
sostenuto da uno zio sacerdote, si formò in una celebre scuola di Palencia. Si
distinse subito per l’interesse nello studio della Sacra Scrittura e per
l’amore verso i poveri, al punto da vendere i libri, che ai suoi tempi
costituivano un bene di grande valore, per soccorrere, con il ricavato, le
vittime di una carestia.
Ordinato sacerdote, fu eletto canonico del
capitolo della Cattedrale nella sua diocesi di origine, Osma. Anche se questa
nomina poteva rappresentare per lui qualche motivo di prestigio nella Chiesa e
nella società, egli non la interpretò come un privilegio personale, né come
l’inizio di una brillante carriera ecclesiastica, ma come un servizio da
rendere con dedizione e umiltà. Non è forse una tentazione quella della
carriera, del potere, una tentazione da cui non sono immuni neppure coloro che
hanno un ruolo di animazione e di governo nella Chiesa? Lo ricordavo qualche
mese fa, durante la consacrazione di alcuni Vescovi: “Non cerchiamo potere,
prestigio, stima per noi stessi. Sappiamo come le cose nella società civile, e,
non di rado nella Chiesa, soffrono per il fatto che molti di coloro ai quali è
stata conferita una responsabilità, lavorano per se stessi e non per la
comunità” (Omelia. Cappella Papale per l’Ordinazione episcopale di cinque
Ecc.mi Presuli, 12 Settembre 2009).
[…] Viaggiando con il Vescovo di Osma,
Diego, Domenico si rese conto di due enormi sfide per la Chiesa del suo tempo:
l’esistenza di popoli non ancora evangelizzati, ai confini settentrionali del
continente europeo, e la lacerazione religiosa che indeboliva la vita cristiana
nel Sud della Francia, dove l’azione di alcuni gruppi eretici creava disturbo e
l’allontanamento dalla verità della fede. L’azione missionaria verso chi non
conosce la luce del Vangelo e l’opera di rievangelizzazione delle comunità
cristiane divennero così le mète apostoliche che Domenico si propose di
perseguire. Fu il Papa, presso il quale il Vescovo Diego e Domenico si recarono
per chiedere consiglio, che domandò a quest’ultimo di dedicarsi alla
predicazione agli Albigesi. […] Gli Albigesi stimavano la vita povera e austera
– in questo senso erano anche esemplari – e criticavano la ricchezza del Clero
di quel tempo. Domenico accettò con entusiasmo questa missione, che realizzò
proprio con l’esempio della sua esistenza povera e austera, con la predicazione
del Vangelo e con dibattiti pubblici. A questa missione di predicare la Buona
Novella egli dedicò il resto della sua vita. I suoi figli avrebbero
realizzato anche gli altri sogni di san Domenico: la missione ad gentes,
cioè a coloro che ancora non conoscevano Gesù, e la missione a coloro che
vivevano nelle città, soprattutto quelle universitarie, dove le nuove tendenze
intellettuali erano una sfida per la fede dei colti.
[…] Questo grande santo ci rammenta che nel
cuore della Chiesa deve sempre bruciare un fuoco missionario, il quale spinge
incessantemente a portare il primo annuncio del Vangelo e, dove necessario, ad
una nuova evangelizzazione: è Cristo, infatti, il bene più prezioso che gli
uomini e le donne di ogni tempo e di ogni luogo hanno il diritto di conoscere e
di amare! Ed è consolante vedere come anche nella Chiesa di oggi sono tanti –
pastori e fedeli laici, membri di antichi ordini religiosi e di nuovi movimenti
ecclesiali – che con gioia spendono la loro vita per questo ideale supremo:
annunciare e testimoniare il Vangelo!
[…] Anzitutto, Domenico e i Frati Predicatori si presentavano come mendicanti, cioè senza vaste proprietà di terreni da amministrare. Questo elemento li rendeva più disponibili allo studio e alla predicazione itinerante e costituiva una testimonianza concreta per la gente. Il governo interno dei conventi e delle provincie domenicane si strutturò sul sistema di capitoli, che eleggevano i propri Superiori, confermati poi dai Superiori maggiori; un’organizzazione, quindi, che stimolava la vita fraterna e la responsabilità di tutti i membri della comunità, esigendo forti convinzioni personali. La scelta di questo sistema nasceva proprio dal fatto che i Domenicani, come predicatori della verità di Dio, dovevano essere coerenti con ciò che annunciavano. La verità studiata e condivisa nella carità con i fratelli è il fondamento più profondo della gioia. Il beato Giordano di Sassonia dice di san Domenico: “Egli accoglieva ogni uomo nel grande seno della carità e, poiché amava tutti, tutti lo amavano. Si era fatto una legge personale di rallegrarsi con le persone felici e di piangere con coloro che piangevano” (Libellus de principiis Ordinis Praedicatorum autore Iordano de Saxonia, ed. H.C. Scheeben, [Monumenta Historica Sancti Patris Nostri Dominici, Romae, 1935]).
[…] Domenico volle che i suoi Frati vi si
dedicassero senza risparmio, con diligenza e pietà; uno studio fondato
sull’anima di ogni sapere teologico, cioè sulla Sacra Scrittura, e rispettoso
delle domande poste dalla ragione. Lo sviluppo della cultura impone a coloro
che svolgono il ministero della Parola, ai vari livelli, di essere ben
preparati. Esorto dunque tutti, pastori e laici, a coltivare questa “dimensione
culturale” della fede, affinché la bellezza della verità cristiana possa essere
meglio compresa e la fede possa essere veramente nutrita, rafforzata e anche
difesa.
[…] Quando Domenico morì nel 1221, a
Bologna, la città che lo ha dichiarato patrono, la sua opera aveva già avuto
grande successo. L’Ordine dei Predicatori, con l’appoggio della Santa Sede, si
era diffuso in molti Paesi dell’Europa a beneficio della Chiesa intera.
Domenico fu canonizzato nel 1234, ed è lui stesso che, con la sua santità, ci
indica due mezzi indispensabili affinché l’azione apostolica sia incisiva.
Anzitutto, la devozione mariana, che egli coltivò con tenerezza e che lasciò
come eredità preziosa ai suoi figli spirituali, i quali nella storia della
Chiesa hanno avuto il grande merito di diffondere la preghiera del santo
Rosario,
[…] Cari fratelli e sorelle, la vita di
Domenico di Guzman sproni noi tutti ad essere ferventi nella preghiera,
coraggiosi a vivere la fede, profondamente innamorati di Gesù Cristo. Per sua
intercessione, chiediamo a Dio di arricchire sempre la Chiesa di autentici
predicatori del Vangelo.
Breve storia dell’Università – G. Tanzella-Nitti
L'idea
che la coltivazione e la trasmissione del sapere richiedesse uomini e luoghi
espressamente dedicati a questa finalità è presente fin dall'antichità e
rappresenta uno dei fattori determinanti per la nascita e lo sviluppo della
civiltà umana. Tra la fine del XII e l'inizio del XIII secolo, questa idea
prenderà corpo in modo organizzato nella fondazione delle Università medievali,
la cui progressiva trasformazione, dovuta all’evolvere della società e alla
crescente diversificazione dei saperi, non impedirà che ancor oggi ci si possa
riferire a queste istituzioni vedendo in esse uno spirito comune ed una certa
omogeneità di fondo. L’università, come soggetto storico e culturale, non è
estranea ai rapporti fra cristianesimo e pensiero scientifico: ne sono
coinvolte non solo le sue origini storiche, ma anche il tema della presenza
della teologia nel contesto delle discipline universitarie, la finalità dello
studio e della ricerca, la questione della verità e l’unità del sapere.
I.
LE FONDAMENTA STORICHE DELL’UNIVERSITÀ E LA
NASCITA DELLE UNIVERSITÀ MEDIEVALI
1. L’Accademia platonica
Se
la genesi delle università medievali rimanda allo sviluppo delle scuole
teologiche e giuridiche già presenti nell'alto medioevo, le prime comunità di
studio risalgono già all’antichità greca. Le scuole di Atene e di Alessandria,
ad esempio, rappresentavano su vasta scala quello che già Platone aveva cercato
di fare con la fondazione dell'Accademia, un luogo nel ginnasio di Atene ove si
riuniva per dialogare con i suoi discepoli, o quanto Pitagora, ancor prima di
lui, aveva creato a Crotone.
Per Platone, l'approfondimento del
sapere e la sua trasmissione dovevano realizzarsi solo all'interno di una
“scuola”, intesa come una comunità di vita e di dialogo fra maestri ed alunni. Secondo
un'intenzione originaria di carattere etico-politico, ed in polemica con i
sofisti, egli voleva formare uomini capaci di riflettere e di governare secondo
verità e giustizia, applicandosi alla filosofia con un metodo razionale
rigoroso, universale, inseparabile dalla ricerca e dall'amore del bene. La
comunità platonica è intellettuale e spirituale al tempo stesso. La ricerca
procede con il contributo dei maestri e dei discepoli, mediante il dialogo ed
il metodo dialettico, volto a preparare uomini capaci di cercare la verità e di
difenderla dall'errore e dai soprusi. La dialettica platonica non è un
esercizio puramente logico: essa richiede un'applicazione, un'ascesi,
l'apertura e la sottomissione ad una verità indipendente, che tutti devono
cercare con umiltà, perché procede dal Logos. La sua finalità più
immediata è la trasformazione interiore ed il miglioramento di chi vi si
applica. Nell'Accademia platonica lo studio diviene una forma di vita, un
impegno personale verso la verità e verso il bene: vivere da buoni filosofi
vuol dire condividere la volontà di cercare il bene disinteressatamente, in
opposizione alla pratica sofista di fare della filosofia uno strumento di
profitto economico e di potere. Non sappiamo se l'Accademia platonica fosse una
comunità cultuale in senso stretto (l'etimologia deriva dal semidio Academo, il
cui luogo di culto era poco distante dalla sede prescelta), ma sta di fatto che
l'impegno autentico verso la verità e la giustizia che essa implicava — specie
se visto in opposizione alla pratica sofista — richiedeva una speciale
sensibilità per il divino, una volontà di sottrarre la conoscenza dalla
tirannia dell'utile per ricondurla alla sfera del Bene. Platone, infine,
offrirà con la sua attenzione al “dialogo” uno dei contributi più importanti a
ciò che saranno in futuro le università medievali e moderne. La necessità
dell'ascolto, dell'umiltà, dell'apertura all'altro, ma anche l'esigenza del
confronto, del rigore, della comunicabilità, vengono già riconosciuti come
elementi irrinunciabili di ogni progresso conoscitivo.
2.
Il risveglio degli studi in Europa e la nascita delle università medievali
Pur
mantenendo un collegamento con le autorità ecclesiastiche e conservando una
condizione in gran parte clericale, questi studi cominciano a svilupparsi con
una logica diversa da quella che aveva precedentemente contraddistinto i
monasteri e le scuole legate alle Cattedrali, per assumere un carattere sempre
più aperto e intercomunicante. Studenti e docenti si riuniscono in specifiche
organizzazioni, di carattere corporativo, che divengono soggetto di diritto e
di privilegi di fronte alle autorità. Al termine Nationes, inizialmente
utilizzato per indicare le associazioni studentesche, si andrà lentamente
imponendo quello di Universitas il quale, a seconda dei luoghi, passerà
ad indicare non solo l'insieme degli studenti, universitas scholarium,
ma l'intera comunità accademica, l'Universitas magistrorum et scholarium.
Verso la metà del XIII secolo il termine Universitas ha già acquistato
un valore giuridico nei documenti ufficiali che ne riguardano l'erezione e
l'ordinamento degli studi. Alla fine del XIII secolo l'Università possiede una
sua configurazione tipica. Vi fanno parte di regola quattro Facultates:
quella di «Arti liberali», i cui studi sono propedeutici alle altre e che
eredita la tradizione di insegnamento del trivium (Grammatica, Retorica
e Logica) e del quadrivium (Geometria, Aritmetica, Astronomia e Musica),
la Facoltà di Diritto, le Facoltà di Medicina e di Teologia. L'attività
didattica ruota principalmente attorno alla lectio, alla quale si
affianca poi la quaestio e la disputatio. I titoli accademici
sono divisi in tre gradi progressivi: il baccalaureato, la licenza ed il
dottorato. I corsi ordinari sono tenuti dai Dottori, quelli straordinari o di
supporto anche dai baccalaureati.
La vita
accademica assomiglia a quella di una cittadella, i cui abitanti eleggono le
loro autorità, rettori, procuratori e vicecancellieri, preparano un proprio
calendario e hanno le proprie feste, godono del privilegium fori, il
diritto cioè ad essere sottratti dal giudizio dell'autorità civile, e di vari
altri vantaggi, fra cui l'esenzione dalla vita militare e la sospensione degli
obblighi residenziali derivanti da incarichi precedenti; in molti aspetti della
loro attività o condizione, gli abitanti dell'Universitas hanno una
dipendenza diretta dall'autorità papale o speciali diritti per appellarsi ad
essa, dando così corpo ad una sorta di libertas accademica nei confronti
dei poteri locali. Tutto, nell'ordinamento e nei rapporti con le altre
componenti sociali, pare orientato a favorire la protezione dell'università,
della sua vita e delle persone che la compongono, nella consapevolezza che il
suo compito costituisca qualcosa di importante, meritevole di essere sostenuto
e difeso, perché legato al bene della società umana ed al suo sviluppo.
Tra
gli eventi che determinarono la rinascita degli studi dell'XI e del XII secolo,
vanno menzionati il Concilio Lateranense III (1175), che istituiva una sorta di
“cattedra” presso ogni chiesa cattedrale affinché un maestro vi insegnasse
gratuitamente a chierici e laici, ed il Concilio Lateranense IV (1215), che
rafforzò ed estese queste disposizioni riguardo la scelta delle sedi e le
discipline da impartire. Se in questo momento esistevano in Europa “scuole” già
ben organizzate a Salerno, Bologna, Parigi, Oxford, Montpellier e Cambridge,
prima della fine del 1300 saranno non meno di 20 le sedi universitarie già
erette con proprie costituzioni, riconosciute dall’autorità papale od imperiale
come personalità giuridiche soggette a regolamentazione accademica e in possesso di
specifici diritti e privilegi. Bologna viene abilitata da papa Onorio III a
conferire nel 1219 il grado di Dottore e viene fornita di statuti nel 1252; nel
decreto di erezione dell’università di Napoli, fondata nel 1224 dall'imperatore
Federico II, incontriamo per la prima volta il termine Facultas;
le varie scuole parigine vengono riconosciute nel 1231 da Gregorio IX come un
corpo strutturato in diverse Facoltà; Oxford vede i suoi statuti confermati da
Innocenzo IV nel 1254; Cambridge appare nel 1260 già dotata di quattro Facoltà
complete; e poi ancora Salamanca, Padova, Orléans, Angers, Lisbona, poi
trasferita a Coimbra. Prima della fine del XIV secolo troveremo sedi
universitarie a Firenze, Pisa, Pavia, Perugia, Grenoble, Avignone, Valladolid,
ma anche a Vienna, Cracovia, Praga... All'inizio del XVI secolo le università
attive in Europa saranno quasi un'ottantina.
Se
Bologna deve la sua gloria iniziale al diritto e Parigi alla teologia, Oxford
vedrà ben presto crescere la sua fama grazie alla sua scuola di logica e di
scienze, legata a personaggi come Robert Grosseteste, Roger Bacon, Thomas
Bradwardine, anche se vi furono presenti teologi come Alessandro di Hales,
Robert Pullen e, più tardi, Duns Scoto. Le università medievali del XIII e XIV
secolo lavorano in un clima inedito, ove si realizzano un'ampia circolazione
della cultura, una significativa mobilità docente, una legislazione volta alla
protezione degli studi, dando così origine ad un fenomeno sociale ed
intellettuale senza precedenti. Lo studio, l'insegnamento e la produzione
letteraria di uomini come Tommaso d'Aquino, Bonaventura, Roger Bacon o Duns
Scoto — solo per fare alcuni nomi — bastano con le loro stesse biografie a
mostrarne la profondità e la portata.
La
concezione medievale dell'unità del sapere riconosceva alla teologia un ruolo
privilegiato, ma tale ruolo non implicava un'egemonia culturale od
organizzativa: della cinquantina di università esistenti alla fine del XIV
secolo, solo poco più della metà possedevano una Facoltà di Teologia. Già in
questa epoca i vari studi universitari mantengono una certa autonomia e l'idea
che dovesse esserci un ordinamento gerarchico delle discipline profane attorno
alla teologia pare per molti versi un'interpretazione riduttiva. La grande sintesi
culturale di cui la teologia medievale è certamente protagonista, riflessa
principalmente nelle grandi opere di molti dei suoi pensatori, primo fra tutti
s.Tommaso d'Aquino, non si esprime necessariamente nell'architettura
universitaria o nella sua organizzazione visibile, quanto piuttosto in uno
“spirito universitario” che rimanda ad una logica comune, ad una condivisione
di luoghi e di diritti, ad una sensibilità la cui origine sta certamente nel
pensiero cristiano dell'epoca. Effetto visibile di tale sensibilità culturale
di matrice cristiana è il fatto che accanto alla teologia, e perfino prima di
essa, sorgano proprio le due Facoltà di Diritto e di Medicina, come esigenza di
studi superiori all'insegnamento delle Arti; due Facoltà, cioè, che testimoniano
in qualche modo un'attenzione all'uomo, ne propongono la protezione della vita
fisica e sociale, la difesa dei suoi diritti, la cura delle sue necessità
essenziali.
Non
pare forzata, pertanto, l'espressione con cui Giovanni Paolo II parlerà ai nostri
giorni dell'università come qualcosa nata «dal seno» o «dal cuore» della Chiesa
(cfr. Ex corde Ecclesiae, 1). Tuttavia le università non appaiono
storicamente come uno “strumento della Chiesa”, né per fini interni alla sua
vita, né per scopi di estensione della sua influenza. Pur
confacenti alla formazione dei propri chierici per finalità di studio e di
predicazione, al momento del loro sorgere le università godono di un respiro
assai più ampio. L'autorità ecclesiastica centrale non si limita a fornire le
opportune garanzie di universalità degli studi e di riconoscimento
dell'attività docente. Si preoccupa di difendere nei limiti del possibile la
gratuità degli studi ed il loro libero accesso, incoraggia le autorità
ecclesiastiche locali perché assicurino una sistemazione adeguata agli studenti
non abbienti favorendo la costruzione di collegi; si fa promotrice, ricorrendo
agli strumenti del tempo, di una legislazione ricca di privilegi, rispettosa
del lavoro che nell'università si svolge ed atta a conservarne le peculiari
esigenze.
Programma della seconda Tappa:
I Lumi del Medioevo
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