Le slides e le Dispense
In questa seconda tappa, dal titolo significativo “La luce del
Medioevo”, si ripercorre l’itinerario filosofico e culturale che dal tramonto
del pensiero greco conduce alla nascita e allo sviluppo della filosofia
cristiana. Contro gli stereotipi elaborati dalla storiografia illuminista,
secondo cui il Medioevo sarebbe un’epoca buia e priva di autentico spirito
critico e razionale, i relatori di questa nuova serie di otto conferenze ci
conducono alla riscoperta dei grandi tesori della ricerca filosofica cristiana.
Un dialogo tra fede e ragione che ha trovato, nell’epoca della cristianità
medievale, il suo vertice insuperato e insuperabile.
Vengono ora riproposte le riflessioni e l’impianto teoretico dei
principali filosofi che hanno contribuito all’edificazione di quelle che
Étienne Gilson ha definito le “grandi cattedrali del pensiero”. Una panoramica
completa, a carattere divulgativo, destinata, come la precedente, a tutti coloro che per un proprio
approfondimento o per semplice curiosità hanno il desiderio di orientarsi in
modo consapevole e completo nel vasto scenario del pensiero filosofico. Le
varie conferenze, della durata contenuta di circa un’ora l’una, rappresentano
un’occasione unica per accostarsi in modo piacevole e competente alle idee su
cui si fondano la società, la cultura, la religione, la storia e l’identità del
mondo occidentale.
Bisogna
ricordare che la grande epoca in cui la filosofia greca, ad Atene, ha
affrontato i temi vitali della società con particolare vigore (pensiamo alla
città ideale di Platone, ai suoi dialoghi sulle leggi, alle lezioni di
Aristotele sull'etica e la politica) è stata in verità anche l'epoca del
declino della vita politica della polis greca. La polis ha perso
la sua autonomia, come tutte le città della Grecia. Dopo l’avvento di
Alessandro Magno infatti sono ormai i re
macedoni e i loro discendenti a dominare la politica della regione, e poco alla
volta si fa percepibile, a oriente, anche l'influenza di Roma.
Ricordiamo che nell’antica Grecia la realtà era un tutto che stava dentro il tutto. Il tutto era come una sfera armonica o circolo metafisico in cui tutto nasceva e moriva e poi si rigenerava. Parmenide diceva che niente può nascere dal nulla e niente può ritornare al nulla, cioè nulla può uscire da questo circolo. Anche la morte non esiste, è solo un cambio di stato perché non possiamo non essere più.
Ma in ogni caso, viene maturando una filosofia che è espressione di questa situazione sociale e politica. Diciamo che la società cittadina (cornice politica di tutto il pensiero degli ateniesi nei secoli precedenti) non è più ormai quella di un tempo. I pensatori si ritraggono dalla scena pubblica, abbandonandola e le scuole diventano luoghi di ritiro. in particolar modo questo vale per le più influenti scuole dell'epoca che hanno mostrato una consistente durata storica: la scuola degli epicurei, quella degli stoici e quella degli scettici. questi tre indirizzi, che si formarono inizialmente ad Atene come correnti di pensiero e di scuola, diffondendosi poi a Roma, hanno influenzato attraverso i secoli l'intera storia universale dell'Occidente, su cui hanno esteso la propria sfera d'az
Altro concetto che si è sviluppato poi è che, al di
sopra di questa sfera, esiste il divino (l’eterno) che governa la realtà. Ma
anche la materia stessa è eterna ed esiste da sempre. La materia non viene da
Dio, ma Dio la trova già così com’è da sempre. Materia e Dio sono entrambi
eterni ed esterni l’uno all’altro e quindi si contrappongono. A questo punto il
circolo metafisico si spezza. I filosofi allora cercano di ricomporre il circolo
metafisico e di riportarvi tutto dentro, cosa che sarà poi cara alla filosofia
medioevale. Si contrappongono in questo percorso la scuola di Epicuro e il suo
Epicureismo e quella di Zenone di Cizio e il suo Stoicismo.
In
quale epoca ci troviamo? Oggi abbiamo un nome con cui chiamarla: si parla
infatti di "età dell'ellenismo". È un'espressione inventata dallo
storico tedesco, Johann Gustav Droysen, che per primo scrisse una "storia
dell'ellenismo". Quest'epoca nel suo complesso è stata considerata come
un'età di decadenza. Trascorsa la fase classica seguiva un periodo di declino,
finché a Roma, in particolare con l'assimilazione del cristianesimo, ebbe
inizio una nuova età del mondo.
Proprio
così era visto il periodo fra la morte di Alessandro Magno e l'inizio dell'era
cristiana. Un'epoca che, nonostante la
sua “decadenza” conobbe grandi sviluppi scientifici, nel campo dell'astronomia
(con la cosmologia tolemaica), ma anche nella meccanica e nella medicina: in
tutti i settori della cultura greca ci fu in un certo senso una sorta di età
delle scienze.
Le filosofie
post-aristoteliche, dette anche filosofie ellenistiche, focalizzarono il loro
interesse su problematiche di ordine etico. In quell'età - l'Ellenismo (323
a.C. - 30 a.C.) - la filosofia definisce infatti in modo diverso il proprio
compito. Fino ad Aristotele essa si era data come
mèta la conoscenza del reale,
scorgendo in essa il fine supremo del pensiero e della vita stessa. Ora si
accentua particolarmente l'ideale pratico, e compito specifico della filosofia
diventa quello di indicare i contenuti e le condizioni di realizzabilità di una
vita giusta e felice. Da qui la nascita delle tre grandi scuole filosofiche
dell'Ellenismo: Epicureismo, Stoicismo e Scetticismo.
Il fine che questi tre
indirizzi avevano di vista era identico: quello di garantire all'uomo la
tranquillità dello spirito. Ma le vie che essi additano per raggiungere tale
fine erano molto diverse.
Il filosofo, per sua natura, cerca la Verità e la sua contemplazione.
Così si pone Epicuro che vede la Verità come qualcosa che si evidenzia da sè. Per
Epicuro la Verità si manifesta in
maniera evidente. Evidente è un oggetto che mi sta davanti, ma evidenti
sono anche le affezioni dell’anima, i sentimenti. Evidente è ciò che si
presenta Innegabile, Incontrovertibile e
Infallibile.
Come fare però per far rientrare tutto questo nel Circolo Metafisico?
Epicuro ricorre a Democrito e al suo atomismo. Il ricorso a Democrito permette a
Epicuro di spiegare che l’Atomo, inteso come particella indivisibile, compone,
insieme a molti altri atomi gli Enti (Ente = qualsiasi essere reale o possibile). Questi quando si
disgregano (muoiono diremmo noi) ritornano ad essere atomi liberi che poi
casualmente si ricompongono formando un nuovo Ente. È così ricostituito il
circolo metafisico.
Perché
l’Evidenza sia davvero tale occorre che l’Uomo sia davvero libero, come lo sono
anche gli atomi che lo compongono. Questi quindi non possono che aggregarsi in
maniera casuale e libera. Hanno una radicale libertà. Non c’è nessun principio
che li determina, non c’è Dio, nessuna mente razionale, nessuna volontà che può
opporsi.
È una
specie di caos determinista che fa le cose, le fa bene, ma non sa perché le fa.
Quindi il mondo è casuale, il mondo non ha alcun senso. In questa situazione
l’uomo è drammaticamente solo, si trova con le sue sole forze a fronteggiare
questa casualità.
Per l’antifinalismo di Epicuro gli Atomi sono Causa Efficiente,
costruiscono qualcosa, ma non sono la causa finale, non determinano nessuno
scopo (o senso). Si parte dagli atomi e si torna agli atomi senza nessuno scopo
apparente. Ma allora che senso ha la vita? La
vita non ha senso. Questo per Epicuro è, volenti o nolenti, la verità
assoluta, la verità pura, senza illusioni e senza equivoci.
Ora però so la Verità, allora non mi scoraggio per essere solo di fronte
al caso, ma trovo in questa inappuntabile conoscenza della Verità, le energie e
le motivazioni per capire cosa mi conviene fare, in cosa sperare e quali cose
lasciar perdere.
So infatti che non c’è alcun castigo di Dio, nessun Fato che mi guida,
ma so che questa è la mia vita e che è
totalmente in mano mia. Capisco che se non mi lascio influenzare da
passioni o desideri smodati e fasulli posso vivere felice. Non ho più il timore
di non sapere come stanno le cose.
Esiste quindi un criterio di scelta nella vita, non tutto è relativo. Esiste
un principio, non si può pensare che ciascuno possa fare ciò che gli pare, ma
esiste la possibilità di scegliere fra il Piacere e il Dolore.
Per essere felici basta poco, basta non avere freddo, non avere fame e
non avere sonno. Cioè coprirsi quanto basta, mangiare quanto basta e dormire
quanto basta. In altri termini condurre una vita morigerata o virtuosa. Questo
ci permette di gareggiare in felicità con Zeus, ma se questo non ci basta non
ci basterà mai niente e saremmo sempre infelici.
L’uomo cerca di essere felice semplicemente scegliendo il piacere e
rifuggendo il dolore. Il piacere non consiste nella conquista di piaceri sempre
più raffinati e mondani o nel darsi a bagordi e orge, ma nell’assenza del
dolore e delle paure. Una per tutte la paura della morte di cui mi posso liberare
perché non esiste nulla dopo la morte, nessun giudizio, nessuna punizione,
nessun luogo infernale, niente di niente.
La vita felice è l’Anima che contempla la verità e il concetto che se il
male del corpo è leggero lo si sopporta, se è acuto porta alla morte, ma questo
non mi fa paura perché so che la morte è la disgregazione degli atomi di cui
sono fatto. Dove c’è la morte non ci sono io, dove ci sono io non c’è la morte.
La scelta del Piacere o del Dolore è un’arte. Io debbo essere in grado
di sapere o capire se la scelta di un piacere mi porterà poi del dolore ad esso
superiore o se la scelta di un dolore è fatta per avere poi un piacere
maggiore.
Questo ci ricorda la saggezza dei nostri genitori quando ci volevano
convincere a studiare, cioè a soffrire la rinuncia al piacere del gioco, per
studiare, a fronte della soddisfazione di avere poi un titolo di studio che ci
desse la possibilità di soddisfazioni sul lavoro di gran lunga superiori
rispetto al gioco rinunciato. Chi non sa rinunciare ad un piacere immediato e
affrontare la fatica dello studio, avrebbe sofferto poi. Ugualmente prendere
una medicina amara ora in funzione di una guarigione poi.
Se tu conosci la verità sai anche qual è la strada da intraprendere. Se
so mi salvo, diceva Socrate. La Virtù è Sapienza.
E' di Epicuro la celebre sentenza: "Vana è la
parola del filosofo se non allevia qualche sofferenza umana". Se la
filosofia ha diritto di cittadinanza nel mondo degli uomini, ciò è dovuto alla
sua capacità di placare le sofferenze che la vita comporta. Il valore della
filosofia è dunque strumentale: il fine
principale della Filosofia è di raggiungere la felicità. Epicuro ritiene
infatti che la verità possa facilmente essere scoperta e compresa dall'uomo e
che quindi la filosofia, come attività che ci permette di conoscere
razionalmente la verità, sia alla portata di tutti ed abbia un carattere
liberatorio. E' naturale quindi, come corollario, che la filosofia sia per
tutti - uomini e donne - e per tutte le età. Coerentemente con questa tesi, le
comunità epicuree erano aperte a tutti, senza distinzione di sesso o di
condizione sociale. "Se siamo felici abbiamo tutto ciò che ci occorre",
e la felicità è ottenibile da parte di tutti ed è per tutti. Per possederla
però il giovane deve liberarsi dalle paure "per affrontare con coraggio
l'avvenire", mentre il vecchio deve saper conservare i bei ricordi per
rimanere giovane nello spirito. La filosofia si presenta sotto una duplice
veste: da una parte insegna, attraverso la conoscenza della natura delle cose,
a liberare la mente dalle inquietudini; dall'altra insegna a godere dei piaceri
della vita. E' quello che Epicuro esprime nella sua dottrina del quadrifarmaco:
1) la filosofia libera l'uomo dalla paura degli dei;
2) la filosofia libera l'uomo dalla paura della morte;
3) la filosofia dimostra la brevità e provvisorietà
del dolore;
4) la filosofia dimostra la facile raggiungibilità
della felicità (il piacere).
Vediamo uno per uno i singoli punti.
1) Per quanto riguarda il timore verso gli dei, Epicuro sostiene che gli dei di
certo esistono, hanno forma simile all'umana ma più perfetta, ed abitano gli
spazi vuoti tra i mondi (intermundia) che sono infiniti, ed in essi ogni
cosa è composta di atomi e vuoto. L'uomo non deve avere paura degli dei perché
essi non si preoccupano né del mondo né tantomeno dell'uomo. Ogni
preoccupazione sarebbe infatti contraria alla loro beatitudine giacché sarebbe
una sorta di obbligo nei nostri confronti, mentre invece essi sono senza
obblighi e beati.
D'altra parte, nel mondo vi è il male e ciò indica che
gli dei non intervengono. Infatti - dice Epicuro - "la divinità o vuol
togliere i mali o non può, oppure può e non vuole o anche non vuole né può o
infine vuole e può. Se vuole e non può, è impotente; se può e non vuole, è
invidiosa; se non vuole e non può, è invidiosa e impotente; se vuole e può,
perché non li toglie?". Perciò il saggio, liberato dalle superstizioni (e
dall’angoscia se gli dei intervengono o no), può vivere con pienezza la sua
vita terrena e attingere in questo modo la felicità.
2) La morte non deve essere temuta perché... non è nulla. "Quando ci siamo
noi, la morte non c'è, e quando c'è la morte, non ci siamo noi", dice
Epicuro. Inoltre, visto che la morte consiste nella separazione dell'anima dal
corpo e visto che per Epicuro anche l'anima è materiale essendo composta da
atomi, nel momento della morte, quando gli atomi si separano, ogni sensazione
cessa, e noi non 'sentiamo' più nulla, né dolore né piacere. La morte è quindi
semplice assenza di sensazioni, ed è dunque sciocco averne paura.
3) Per dimostrare la brevità del dolore, Epicuro afferma quanto segue: se il male
è lieve, il dolore fisico è sopportabile, e non è mai tale da offuscare la
gioia dell'animo; se è acuto, passa presto; se è acutissimo, conduce presto
alla morte, la quale non è che assoluta insensibilità. E i mali dell'anima?
Essi sono prodotti dalle opinioni fallaci e dagli errori della mente, contro i
quali c'è la filosofia e la saggezza.
4) La felicità è facilmente raggiungibile e consiste nel piacere. Ma che cosa
intende Epicuro per piacere? Per rispondere dobbiamo anzitutto dire che si
assiste qui ad un clamoroso rovesciamento di valori e di fini: a differenza del
Platonismo, dell’Aristotelismo e anche dello Stoicismo, il piacere viene
considerato da Epicuro come il principio e il fine della vita felice. Direi di
più: il piacere è il bene primo, connaturato con noi stessi.
L'uomo quindi è felice secondo natura, a meno che non
gli manchi qualcosa. Infatti il piacere è la felice sensazione di pienezza che
l'uomo prova naturalmente se non lo limitano dei piaceri insoddisfatti. Tutto
ciò che dobbiamo fare è mantenerci nel piacere, eliminando le cause che
disperdono la pienezza del nostro essere. L'infelicità degli uomini deriva dal
fatto che essi temono le cose che non devono essere temute e desiderano le cose
che non è necessario desiderare e che sfuggono loro.
Sono dunque privati dell'unico piacere autentico, che
è il piacere di essere. Anziché rappresentarci i mali in anticipo per
prepararci a subirli, dobbiamo, al contrario, staccare la nostra mente dalla
visione delle cose dolorose e fissare lo sguardo sui piaceri. Occorre far
rivivere il ricordo dei piaceri passati e godere dei piaceri del presente,
riconoscendo quanto siano grandi e piacevoli tali piaceri del presente. Non
tanto quindi vigilanza, quanto scelta deliberata, sempre rinnovata, della
distensione e della serenità, ed una gratitudine profonda verso la natura e la
vita che ci offrono incessantemente, se sappiamo trovarli, il piacere e la
gioia ("Sia reso grazie alla beata
natura che fece le cose necessarie facilmente procacciabili, quelle
difficilmente procacciabili non necessarie").
Vivere nel momento presente è, ancora una volta, un
invito alla distensione e alla serenità: la preoccupazione rivolta al futuro,
che ci lacera, ci nasconde il valore incomparabile del semplice fatto di esistere.
Inoltre, per gli Epicurei, proprio il piacere è una sorta di "esercizio
spirituale": piacere intellettuale della contemplazione della natura,
pensiero del piacere passato e presente, piacere infine dell'amicizia.
Nell'esaltare l'amicizia, Epicuro assume a volte dei toni di pura poesia. Vi è
per lui nella amicizia (philia) una serenità più profonda, superiore
anche a quella dell'amore (eros), perché più facilmente si può conservare
libera da sentimenti che procurano dolore come la gelosia o il dolore del
distacco o la paura di non essere riamati.
L'atteggiamento di Epicuro verso gli
altri uomini è riassumibile nella sua massima: "E' non solo più bello ma anche più piacevole fare il bene anziché
riceverlo". In questa massima, il piacere assurge a fondamento e a
giustificazione della solidarietà fra tutti gli uomini. E infatti Diogene
Laerzio ci testimonia l'affetto di Epicuro per i genitori, la sua fedeltà agli
amici, il suo senso di solidarietà umana (cfr. Vite dei filosofi, X, 9).
Il piacere - in quanto sensazione interiore - deve essere posto come norma
delle nostre affezioni. Il principio è il seguente: ogni piacere è di per sé un
bene, ma non è detto che le sue conseguenze nel tempo siano vantaggiose per
noi. Viceversa, ogni dolore è un male, ma non è detto che da un male non possa
derivare un bene per noi. Quindi il piacere diventa la norma su cui giudicare
le nostre azioni perché ci suggerisce cosa scegliere, spingendoci verso ciò che
nel tempo ci è più favorevole. Solamente un accorto calcolo dei piaceri può far
sì che l'uomo basti a se stesso e non diventi schiavo né dei desideri né delle
preoccupazioni, rinunciando ai piaceri (che di fatto durano poco) da cui deriva
un dolore maggiore (che magari dura più a lungo o per sempre, come i vizi) e
sopportare i dolori da cui potrà derivare poi un piacere di gran lunga maggiore.
Insomma, per Epicuro il piacere è il bene completo e
perfetto quando sia inteso come non aver dolore nel corpo né turbamento nell'animo.
Per questo egli fa un elogio della phronesis
(=saggezza, prudenza), considerata il fondamento di tutte le virtù. Essa ci
abitua a contenere i desideri, a valutare con cura le conseguenze delle nostre
scelte, prevedendo un ampio margine di sicurezza, per evitare che da un bene
abbia a derivarne un male. Dice infatti Epicuro: "Per ognuno dei desideri va posta questa domanda: che cosa mi accadrà se
si realizza il mio desiderio, e che cosa, se non si realizza?".
In conclusione, la vita sarà felice se saprà essere
vissuta con saggezza, semplicità e giustizia. "Non ci può essere vita felice se non è anche saggia, bella e giusta; e
non vi è vita saggia, bella e giusta che non sia anche felice. Le virtù sono
infatti connaturate ad una vita felice, e questa è inseparabile dalle virtù".
Agli uomini del suo tempo, Epicuro ricordava che il
vero bene è sempre e soltanto in noi. Il vero bene è la vita, e a mantenere la
vita basta pochissimo, e quel poco è a disposizione di tutti, di ogni singolo
uomo.
Zenone di Cizio cerca di salvaguardare il circolo metafisico partendo
dall’idea di Dio. Si parte cioè da un Dio supremo, eterno e immutabile, causa
efficiente e finale dell’Universo (Principio attivo) ma che è anche materia
(principio passivo).
Non può quindi esistere nulla al di fuori di Dio, tanto meno la materia.
Dio è colui che dà origine al mondo, ma è anche la materia del mondo.
Non siamo ancora dentro il concetto cristiano di un Dio creatore
(creazionismo), ma di un Dio che è anche materia. È un concetto panteistico o
materialista, ma è già un altro passo in avanti nella ricerca della Verità. Dio
sta dentro la materia. Dio è il pensiero. Dio è il mondo. Dio è tutto.
Tutto parte da Dio (principio attivo) e deve ritornare a Dio (principio passivo).
È così si salva il circolo metafisico.
Quindi mentre per Epicuro l’uomo è un essere radicalmente libero, cioè
che può agire liberamente perché non ha vincoli, non ha significati, non ha
obiettivi, può dare un senso alla sua
vita, come può non darlo, per Zenone e gli stoici l’Universo è il prodotto del Lògos (Lògos = pensiero, ragion d'essere,
causa, spiegazione, enunciato, definizione, argomento, ragionamento, ragione,
disegno). In esso tutto è necessario.
Il mondo è assolutamente perfetto.
Se il mondo è per Dio, il mondo non può essere diverso
da quello che è, perché altrimenti non sarebbe più per Dio. Il mondo è come
deve essere ed è assolutamente perfetto, perché Dio sta in tutte le cose. Dio è
assolutamente perfetto. L’Uomo in questo panorama di estrema necessità non è
assolutamente libero di fare quello che vuole. L’Uomo può fare solo quello che
Dio ha stabilito che l’Uomo debba fare. Dio interviene attraverso la
Provvidenza, il Destino, il Fato a guidare l’Uomo verso la missione che egli
stesso gli ha affidato.
Dio che è il Lògos (pensiero), pensando
a se stesso dà origine a tutto il mondo. Il Pensiero è l’Anima, l’Anima che
vivifica il tutto e sta in tutto (panteismo). Il mondo segue una direzione che
nessuno può cambiare. L’Uomo quindi non è libero, è obbligato per necessità a
fare quello che il Destino vuole.
Ha si qualche grado di libertà, cioè adeguarsi alla situazione
comportandosi come il Destino vuole (collaborando) o ribellandosi (non
collaborando), ma in questo caso soffrirà molto di più per poi fare comunque
quello che è stato stabilito. O si va nella direzione voluta dal Destino
(comportamento consigliato dal filosofo) o si è trascinati comunque a compiere
il proprio destino.
“Ducunt volentem fata, nolentem
trahunt” (il Fato guida chi vuol lasciarsi guidare e trascina
chi non vuole) – Seneca
L’Uomo è veramente
se stesso e davvero felice e quindi virtuoso quando riesce a comprendere cosa
il destino vuole da lui. Cioè quando vive secondo la sua natura.
Come in Socrate,
Platone e Aristotele la virtù è nell’Uomo ed è la sua capacità di raggiungere
il bene che gli è proprio: la Ragione Perfetta. La Felicità è per l’Uomo essere
compiutamente se stesso. La Virtù è la Felicità stessa. La Felicità non è il
premio di una vita virtuosa, ma è la stessa vita virtuosa. I Sapienti sono
quelli che vivono virtuosamente.
Anche se gli stoici enumerano molte virtù queste di fatto sono
l’articolazione di una unica virtù che le comprende tutte e che è la Scienza: contemplazione della Verità
della Phýsis.
Queste virtù,
comprese per gli stoici tutte nella Scienza, sono riconducibili alle quattro
“virtù cardinali” della fede cristiana:
1.
La Saggezza (sapere
ciò che si deve e ciò che non si deve fare),
2.
La Temperanza
(sapere ciò che si deve desiderare e ciò che è sconsigliabile desiderare),
3.
La Giustizia
(è dare a ciascuno il suo, ciò che si merita),
4.
La Fortezza (sapere
ciò che è temibile e ciò che non lo è).
Ogni uomo può quindi
essere virtuoso, cioè sapiente e felice. Nessun uomo è schiavo per natura. Il
vero libero è il sapiente, il vero schiavo è l’insipiente.
Le passioni sono
turbamento dell’anima e impediscono la contemplazione della verità. Attraverso
lo stoicismo si affaccia nella civiltà occidentale uno dei temi fondamentali
dell’oriente.
È Lucrezio Caro a mostrarci che
Epicuro e la sua scuola discendono in realtà da Democrito. Chiediamoci: come è
sorto l'ordine del mondo? Innanzitutto c'era una confusione di atomi e, in
seguito, casualmente, gli atomi hanno iniziato ad aggregarsi. Fu poi da questo
punto di partenza che, per così dire, si è sviluppato il mondo. Non mi
soffermerò a descrivere, ora, il modo in cui la fisica attuale presenta la
nascita dell'universo dopo il "Big bang", ma il quadro d'insieme è
simile. Non si tratta di altro che di un caso,… di una deviazione. Accade cioè
che un atomo, nella sua caduta, finisca per aggregarsi a un altro atomo che gli
sta accanto. In questa maniera, lentamente, proprio come direbbe un astrofisico
dei nostri giorni, un poco alla volta si genera una differenziazione nella
materia originaria, e da questa prende avvio l'intera storia dell'evoluzione
dell'universo. Negli ultimi decenni molti esperti scienziati sono
effettivamente riusciti a descrivere una cosa simile.
Tornando ad un buon uso della
ragione possiamo dire che c'è voluta una bella “faccia tosta” da parte di
questi scienziati (ma sono davvero scienziati?) ad accettare oggi il fatto che
questo meraviglioso ordine del mondo sia un prodotto del puro caso. È come
accettare che una Cattedrale si sia formata per pura combinazione casuale.
A questa concezione si contrappone
ovviamente la convinzione opposta, altrettanto forte, assai rilevante in
Platone e in Aristotele, e che non di rado troviamo espressa nei dialoghi. Platone,
ad esempio, descrive Socrate nell'atto di rivolgersi a un suo interlocutore con
queste parole: "Potresti tu forse
immaginare che questo ordinamento, l'alternarsi del sole e della luna, e gli
strani movimenti delle orbite dei pianeti, e tutto ciò che accade nel cielo con
esemplare precisione possa essere frutto del caso? Dietro tutto questo deve
esserci uno spirito ordinatore".
Ecco, questa è la sua risposta! Perché, però, Democrito fu sconfitto, e vinse
invece la linea di Platone?
Il fatto è che Platone era un'anima naturaliter christiana; nella critica
all'immagine atomistica del mondo egli poteva argomentare in maniera più
convincente, in quanto il popolo, in generale, non era ancora in grado di
comprendere un ordine diverso da quello creato dall'uomo stesso. Tale ordine,
in definitiva, è lo spirito organizzatore che troviamo nel bravo artigiano, nel
grande artista, e soprattutto in Prometeo, una figura mitica che si leva al di
sopra dell'intero sviluppo culturale greco. Ecco, la "poiesis" - il saper fare: questo è il modello del vero ordine.
Infine, l'evoluzione religiosa dell'Occidente poteva facilmente assorbire
questa mentalità nel passaggio al mondo cristiano.
Il Timeo di Platone, che è
descrizione del racconto mitico della costruzione del mondo da parte di un
demiurgo, è stato continuamente chiamato in causa nella tarda antichità e dai
Padri della Chiesa come anticipazione della dottrina della creazione riportata
nell'Antico Testamento.
Zenone è stato un filosofo greco antico di origine fenicia come Talete, nativo di Cipro
e considerato il fondatore dello stoicismo. Cizio (odierna Làrnaca) era una località dell'Isola di Cipro,
che all'epoca costituiva un importante crocevia dei commerci tra l'Occidente e
l'Oriente del Mediterraneo. Intorno al 300 fondò la Stoà, ovvero la scuola filosofica così
chiamata dalla Stoà
Pecìle (in greco Stoà Poikìle), che era il portico dipinto dell'agorà di Atene in cui egli teneva le sue lezioni
perché non aveva una casa propria non essendo ateniese, ma fenicio.
Lo stoicismo è una corrente filosofica e spirituale fondata da Zenone di Cizio, con un forte orientamento etico. Gli stoici sostennero le virtù
dell'autocontrollo e del distacco dalle cose terrene, portate all'estremo nell'ideale
dell'atarassia, cioè «la perfetta pace dell’anima
che nasce dalla liberazione delle passioni», come mezzi per raggiungere
l'integrità morale e intellettuale. Nell'ideale stoico è il dominio
sulle passioni o apatìa
che permette allo spirito il raggiungimento della saggezza.
Riuscire è un compito individuale, e scaturisce dalla
capacità del saggio di disfarsi delle idee e dei condizionamenti che la società
in cui vive gli ha impresso. Lo stoico tuttavia non disprezza la compagnia
degli altri uomini e l'aiuto
ai più bisognosi è una pratica raccomandata.
Gli
stoici dividevano la filosofia in tre discipline:
1.
la logica, che si occupa del
procedimento del conoscere;
2.
la fisica, che si occupa
dell'oggetto del conoscere;
3.
l'etica, che si occupa
della condotta conforme alla natura razionale dell'oggetto.
Essi
portavano un esempio: la logica è il recinto che delimita il terreno, la fisica
l'albero e l'etica è il frutto.
La
logica per gli stoici, a
differenza di quanto avveniva nel pensiero greco precedente, non è
solo uno strumento al servizio della metafisica, ma si pone come disciplina
autonoma rispetto agli altri campi di indagine; essa comprendeva, oltre alla gnoseologia ("teoria
della conoscenza") e alla dialettica ("arte del disputare"), anche la retorica (“l’arte del parlare e dello scrivere in modo
ornato ed efficace”). Per "logica" infatti gli stoici
intendevano non solo le regole formali del pensiero che si conformano
correttamente al Lògos, ma anche quei costrutti del linguaggio con cui i pensieri
vengono espressi. Non a caso Lògos può significare sia ragione che discorso; oggetto della
logica quindi sono proprio i lògoi, ossia i ragionamenti espressi in
forma di proposizioni (lektà).
In
maniera simile alla gnoseologia aristotelica, per gli stoici il criterio supremo della verità è
l'evidenza,
che consente di riconoscere la validità dei princìpi-guida della logica.
L'evidenza si basa in particolare sull'assenso (synkatáthesis) che la mente
dà alla rappresentazione di un dato fenomeno. A differenza quindi della
dottrina epicurea, la conoscenza non si fonda sulla semplice sensazione (àistesis),
né sull'impressione che questa provoca nell'anima (phantasía): entrambe
infatti, per via della loro instabilità, non potrebbero dare alle proposizioni
il carattere di scienza che invece è
necessario per poter distinguere correttamente il vero dal falso.
Nel processo
conoscitivo concorrono dunque due elementi:
- uno attivo, heghemonikòn, che
consiste nelle anticipazioni mentali, cioè previsioni basate su conoscenze già acquisite, ma in grado
di avere un ruolo di guida; e
- uno passivo, hypàrchon, che è
appunto il semplice dato sensibile.
Il
linguaggio in cui si esprime questa logica tuttavia non era per gli Stoici
qualcosa di convenzionale, ma doveva rispondere al più alto compito dell'uomo,
che consisteva nella contemplazione
della verità, abbracciandola
nella sua totalità. Scopo finale della gnoseologia stoica era infatti
quello di rappresentarsi il corretto articolarsi del Lògos nel mondo, di coglierne cioè la struttura razionale, in
vista dell'agire virtuoso (katòrthoma).
Sebbene tutto il
sistema fosse subordinato all'etica, questa si fondava a sua volta su un
principio che ha origine nella fisica. La fisica stoica deriva dalla concezione
eraclitea del fuoco come
forza produttiva e ragione ordinatrice del mondo. Da questo fuoco artigiano
(πύρ τεχνικόν) si genera l'universo, il quale, in certi periodi determinati di
tempo, si distrugge per tornare a rinascere dal fuoco in una nuova palingenesi
(“rigenerazione”), ristabilendosi ogni volta nel suo stato
originario. Per questo motivo si è soliti parlare di un eterno ritorno (“apocatastasi”) che si produce
ciclicamente sotto forma di conflitto universale, attraverso una conflagrazione
o ecpirosi (εκπύρωσις). Ogni
periodo che si produce dal fuoco e culmina nella sua distruzione attraverso il
fuoco stesso è definito diakosmesis (διακόσμησις).
« La
ricostituzione del tutto avverrà non una, ma più volte, o meglio le stesse
realtà si ricostituiranno all'infinito e senza limite. E gli dei, non essendo
soggetti alla distruzione, ma succedendo ad ogni ciclo, conoscono perciò
tutto quanto avverrà nei cicli successivi, perché non vi sarà nulla di
diverso rispetto a ciò che è accaduto in precedenza.»
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Tale
ordinamento è retto da una ragione (Λόγος) universale.
Questa può essere intesa come un movimento in-causato, eterno, inarrestabile, immanente, che pervade
qualunque forma di essere, dal più semplice ed infimo fino al più grande e
complesso, vivente e non vivente. Dalla sua azione scaturiscono due principi in cui il mondo risulta
suddiviso: uno attivo, chiamato
in vari modi (appunto logos, o Zeus, soffio, natura),
ed uno passivo, che è la materialità
delle cose.
Già
Aristotele aveva affermato che la materia non potrebbe
sussistere senza una forma, e quindi senza un
Dio che, in quanto atto
puro,
è la causa del suo strutturarsi in un certo modo. Gli Stoici tuttavia eliminano
ogni dualismo tra l'essere in potenza e l'essere in atto, sostenendo che Dio non sarebbe perfetto se la materia fosse
ancora, in qualche modo, indipendente da Lui. Dio pertanto non solo produce le forme, ma rappresenta anche la materia
stessa, l'elemento passivo che viene plasmato da quello attivo. Ciò
significa che il Logos non è semplice corporeità, ma è la radice di ogni
corporeità (lògos spermatikòs). Dio
è un Pensiero che, nel pensare se stesso, pensa e crea
anche l'universo, in un'unità inscindibile di spirito e materia. Questo spirito
o pneuma
o
aria che è riscaldata dal fuoco, raffreddandosi dà
quindi origine all'acqua, e infine
all'elemento solido, la terra: sono i quattro elementi che compongono
l'universo.
Un
altro termine utilizzato per indicare il soffio vitale che pone ordine nella
materia inerte è «Anima del mondo», ripreso in
particolare dal Timeo di Platone; in virtù di
questo principio tutto l'universo risulta concepito come un unico grande organismo, regolato da
intime connessioni (sympathèia) fra le sue parti. Esso è un tutto omogeneo, nel quale non ci
sono zone vuote; contro Epicuro, gli stoici affermano la fluidità e
penetrabilità dei corpi e, di conseguenza, la tesi per cui non tutto è materia:
così, in maniera simile a quanto sosterrà Plotino, l'essere non esaurisce il
«tutto». L'espressione comprensiva utilizzata dagli stoici per indicare sia gli
enti che gli incorporei è ti, il «qualcosa», contrapposto al niente.
L'ordine
presente all'interno del cosmo è inoltre qualcosa di necessario: una necessità che
non è da intendersi meccanicamente alla maniera degli
atomisti, bensì in un'ottica finalistica. Nulla infatti avviene per caso: è il Fato, o il Destino, a guidare gli
eventi. E poiché tutto accade secondo
ragione, il Logos divino è anche Provvidenza (prònoia),
in quanto predispone la realtà in base a criteri di giustizia, orientandola
verso un fine prestabilito. La fisica stoica aderisce pertanto alla convinzione
giusnaturalista,
cioè che
esista un “diritto naturale” al quale è giusto conformarsi, e di cui le diverse
legislazioni dei singoli Stati sono solo imperfette imitazioni.
«Il vivere secondo natura è vivere
secondo virtù, cioè secondo la natura singola e
la natura dell'universo, nulla operando di ciò che suole proibire la legge a
tutti comune, che è identica alla retta ragione diffusa per tutto l'universo
ed è identica anche a Zeus, guida e capo dell'universo».
(Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei filosofi )
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L'etica stoica si fonda
sul principio che l'uomo è partecipe del lógos e portatore di una
"scintilla" di fuoco eterno. L'essere umano è l'unica creatura, fra
tutti i viventi, nel quale il Lògos si rispecchia perfettamente: egli è
pertanto un microcosmo, una totalità nel quale tutto l'universo è riprodotto.
La
virtù consiste nel vivere in modo conforme (ομολογία) alla natura del mondo,
secondo il principio di conservazione (oikeiosis). Mentre gli
animali tendono a preservare se stessi obbedendo agli impulsi, gli uomini
devono scegliere sempre quel che conviene alla nostra natura di esseri
razionali. Il principio-guida della condotta quindi non può essere la ricerca
del piacere come sostengono gli epicurei:
« Il
piacere, se mai esiste, è un prodotto successivo, quando la natura, dopo aver
cercato le cose adatte, lo fornisce in sé e per sé alla costituzione: e in
questo modo gli animali appaiono lieti e le piante fioriscono».
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La
guida dell'azione va invece ricercata, ancora una volta, nel principio attivo dell'anima
(heghemonikòn), al quale deve sottostare quello passivo (pàthos).
Sono le passioni infatti che
impediscono l'adeguamento della condotta umana alla razionalità. Raggiungendo lo
stato di dominio sulle passioni o apatia (απάθεια), ciò che
poteva apparire come male e dolore si rivela come un elemento positivo e
necessario; anche la malattia e la morte quindi vanno accettate. Si tratta di
un'etica del dovere riassunta da Epitteto nel celebre motto
«ανέχoυ καί απέχoυ» («sopporta e astieniti»), non tanto come invito a
sopportare il dolore e astenersi dai piaceri, ma ad accogliere serenamente quel che riserva il destino evitando però di
farsi coinvolgere emotivamente. Questo è anche il senso della famosa metafora stoica che
paragona la relazione uomo-Universo a quella di un cane legato ad un carro. Il
cane ha due possibilità: seguire armoniosamente la marcia del carro o
resisterle. La strada da percorrere sarà la stessa in entrambi i casi; ma se ci
si adegua all'andatura del carro, il tragitto sarà armonioso. Se, al contrario,
si oppone resistenza, la nostra andatura sarà tortuosa, poiché saremo
trascinati dal carro contro la nostra volontà. L'idea centrale di questa
metafora è espressa in modo sintetico e preciso da Seneca, quando sostiene:
«Ducunt volentem fata, nolentem trahunt» («Il destino guida chi lo
accetta, e trascina chi è riluttante»).
La
saggezza stoica consiste
nella capacità di raggiungere la felicità, ed è per questo
incentrata sull'atarassia, o
imperturbabilità dell'animo, concetto derivante in gran parte dalla Scuola Cinica. Ad essa si
approda innanzitutto diventando padroni di sé stessi. Secondo gli stoici, la
volontà del saggio aderisce perfettamente al suo dovere (kathèkon),
obbedendo a una forza che non agisce esteriormente su di lui, bensì
dall'interno. Egli vuole quel che deve,
e deve quel che la sua stessa ragione gli impone. Lo stoicismo non è dunque
una sorta di esercizio forzato di vita, perché tutto, nell’esistenza del
saggio, scorre pacificamente.
E
poiché il Bene consiste nel
vivere secondo il Lògos, il male è solo ciò che in
apparenza vi si oppone. Ne risultano così tre tipologie di azioni:
- quelle dettate dalla ragione, come il rispetto per i genitori, gli
amici e la patria;
- quelle contrarie al dovere, e quindi da evitare, in quanto
irrazionali ed emotive;
- quelle «indifferenti» sia al bene che al male (adiáphora),
come ad esempio sollevare una pagliuzza, o tenere una penna.
È in quest'ultima
categoria che però rientrano di fatto anche tutte quelle azioni in grado di determinare
salute, ricchezza, potere, schiavitù, ignominia, ecc. Queste qualità per gli
stoici non hanno importanza, perché non esistono beni intermedi: la felicità o
l'infelicità dipendono unicamente da noi, non possono essere il risultato di
una mediazione. Da qui la netta contrapposizione: o si è sapienti, o si è
stolti, tutto il resto è indifferente. Nessuno, di conseguenza, è
schiavo per natura, l'essere umano è assolutamente libero di approdare alla
saggezza, mentre schiavo è soltanto colui che si fa dominare dalle passioni.
Avendo
fiducia di come tutto sia regolato necessariamente dalla ragione (filosofia),
il saggio è tale in quanto abbandona il punto di vista relativo dell’io
individuale per assumere un punto di vista assoluto, una visione della
realtà sub specie aeternitatis. Al punto culminante del suo complesso
itinerario spirituale, reso possibile dalla filosofia, egli approda così ad
un'unione mistica e ascetica con il tutto.
Logica, fisica ed etica vanno pensati proprio come una scala che conduce verso
la contemplazione finale. E l’etica,
il cui frutto è la virtù, rappresenta l’ultimo gradino: si recupera in tal modo
da Socrate la concezione
intellettuale dell'etica, per cui il Bene è uno solo, e scaturisce
dall'unico vero sapere.
la
Scuola Cinica, dalla quale ha poi avuto origine anche lo Stoicismo, appartiene al ceppo degli insegnamenti socratici, da cui
derivarono anche altre scuole filosofiche. L'iniziatore del cinismo fu Antistene di Atene (Atene, 436 a.C. – 366 a.C.), prima
allievo di Gorgia da Lentini e poi di Socrate. Antistene di Atene,
sviluppò soprattutto il lato pragmatico della dottrina di Socrate insistendo sull'importanza
dell'autodominio (enkràteia) e dell'autosufficenza (autarcheia),
ossia dell'autogestione, che si raggiunge solo con la virtù. Diede grande
importanza all'esercizio (askesi, da cui ascetismo) come preliminare a
qualsiasi autosufficenza e di questa parlò come il massimo bene. In politica fu sia contro la tirannide, negatrice della libertà, ma anche contro la democrazia, fondata sull'incompetenza
di chi è chiamato a decidere. Il vero
insegnamento di Antistene si può quindi ricondurre ad un monito: mantenere la
dignità e l'autosufficienza critica anche nei momenti della più intensa
integrazione sociale. «Non seguire il gregge, non cedere alle passioni».
Il cinico più famoso,
noto come il Socrate pazzo, fu certamente Diogene di
Sinope (Sinope, 412 a.C. –
Corinto, 323 a.C.), allievo di Antistene. Proprio Diogene, del resto portò all'estremo il disprezzo
per ogni costume e convenzione, desiderando mostrare quanto fosse auspicabile
un ritorno integrale alla natura. Nella sua vita c’era, senza dubbio, una
fortissima componente provocatoria, qualcosa che voleva dar da pensare ai
superficiali ateniesi incatenati agli agi del vivere civile (fu il primo a
dichiararsi cittadino del mondo).
Essendo lo spirito
e la materia uniti indissolubilmente, la saggezza dagli Stoici non è concepita
come un'attività puramente intellettuale, ma anche propedeutica all'agire. Il
concetto di apatia, che a molti
potrebbe apparire come una sorta di stolta indifferenza, e che oggi ha assunto
un connotato per lo più negativo, è al contrario il risultato della virtù che
si attua in aderenza alle leggi del Lògos. Solo compiendo il proprio dovere,
infatti, l'uomo può identificarsi con esso, diventando ciò che egli da sempre
è. A differenza dei cinici, dunque, fra i
doveri principali degli uomini, in quanto esseri razionali, vi è soprattutto la
politica. Questa nuova
forma di attivismo fu introdotta in particolare quando alcuni esponenti della
media-stoà, come Panezio, entrarono in
contatto con l'ambiente romano. Fu così che
numerosi stoici dell'antichità divennero attivi statisti, dediti all'esercizio
del bene pubblico. In loro si avverte soprattutto una dimensione cosmopolita, che scaturisce da
quel sentimento di compassione e partecipazione
agli eventi del mondo proprio della sympathèia, ossia dell'intima
connessione esistente tra la sfera dell'uomo e quella dell'Anima cosmica: essi sono sudditi
di una patria universale, non c'è avvenimento che non li riguardi.
L'«indifferenza
stoica» del primo periodo venne perciò modificata: in maniera maggiormente
simile a quanto affermava Aristotele nella sua Etica Nicomachea, se i mali o i beni materiali sono indifferenti
per il raggiungimento della virtù, non per questo è da ignorare tutto ciò che
può dare un prezioso contributo in tal senso: esistono anche beni che, se di
per sé non danno la felicità, sono però preferibili (proegména)
rispetto ad altri. Questo mutamento di prospettiva avvenne quando Panezio si
rese conto che l'ideale stoico della saggezza poteva apparire vuoto e
astratto, rischiando di mettere in crisi l'intera dottrina dell'etica. Diogene Laerzio riferisce in proposito: « Panezio
e Posidonio sostengono che la
virtù non è sufficiente, ma occorrono anche buona salute, abbondanza di mezzi
di vita, e forza. »
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Sarà invece con la
nuova Stoà che verrà recuperata una concezione dell'etica nuovamente rigorosa
sul modello di quella antica, pur mantenendo delle notevoli tendenze al
cosmopolitismo e al filantropismo. Cicerone parla di humanitas, sentimento di
benevolenza e solidarietà disinteressata verso i suoi ugualmente figli dello
stesso Lògos. Epitteto affermerà di
sentire tutti gli uomini come suoi fratelli, essendo al pari di lui.
Lo
Scetticismo è una posizione epistemologica che nega la possibilità di
raggiungere, con la conoscenza, la verità. Lo scettico è colui che nega la
possibilità di conoscere la verità. Più in dettaglio sul piano gnoseologico, pur non negando di possedere l'idea
della cosa pensata, lo scettico dubita che il pensiero della realtà sia una
rappresentazione attendibile della realtà stessa, poiché la conoscenza si basa
sui sensi, che danno percezioni ingannevoli e
mutabili nel tempo. La presenza dello scetticismo segna tutta la storia della
filosofia occidentale. Esso, infatti, esprime un'istanza tipica dell'essere
umano: la sua perenne insoddisfazione di fronte al
proprio conoscere. Lo scetticismo può essere definito - in modo molto
generico - come il momento di dissoluzione di ogni tipo di dogmatismo che si
affaccia sulla scena del pensiero del momento. La storia del pensiero occidentale
è continuamente segnata da questa oscillazione tra affermazione dogmatica e
reazione scettica. Approfondiremo lo Scetticismo quando parleremo di
Sant’Agostino che lo combatterà strenuamente.
Ultima filosofia Greca in era ormai cristiana
Con Plotino non siamo più in Grecia o
in Italia, ma in Egitto vicino alla grande scuola di Alessandria che sarà poi
il fulcro del pensiero cristiano. Plotino stesso vive già in epoca cristiana.
Il cristianesimo è ormai diffuso in tutto il Mediterraneo, ma ad esso Plotino
si contrappone radicalmente.
Plotino (Licopoli 205 d.C. – Minturno 270
d.C.) è
stato l’ultimo filosofo greco antico, uno dei più
importanti filosofi dell'antichità, erede di Platone e padre del neoplatonismo. Gli scritti di
Plotino, hanno ispirato per secoli teologi, mistici, metafisici,
pagani, cristiani, ebrei, musulmani e gnostici
(gnosis = conoscenza o illuminazione, cioè che seguono la "dottrina della salvezza tramite
la personale conoscenza" e non per grazia di Dio). La sua è una dottrina che di fatto
riassume tutto quello che è stato osservato dai filosofi greci. Plotino riparte
dal circolo metafisico che non solo recupera, ma ne dà l’espressione massima. l’Archè è ciò da cui
tutte le cose vengono e a cui tutte le cose vanno. Ricordiamo l’analogia
del mare da cui le onde derivano e nel quale le onde si annullano pur avendo
sempre la stessa sostanza, quella del mare.
Ricordiamo che questo circolo in
Parmenide non c’è più, esiste solo un punto fisso eterno ed immutabile che è
l’essere, tutto il resto, il divenire e la molteplicità non esistono, sono
illusioni, pura apparenza.
Anche in Platone e in Aristotele il circolo non esiste più. C’è da una
parte Dio, le idee, il mondo intellegibile, dall’altra la materia informe (che
ha bisogno di un Demiurgo per plasmarla prendendo ispirazione dalle Idee). Sono
queste due semi sfere, due principi coeterni. Non è più un circolo, ma due
semicerchi.
Plotino vuole ripristinare il Circolo
Metafisico. Infatti esiste una contraddizione fra Dio, uno ed eterno, e la
Materia. Questo perché se la Materia è indipendente da Dio è logico che Dio
manca di qualcosa, e quindi non può essere “motore immobile” e “atto puro”,
come affermava Aristotele. Ricordiamo che il “motore immobile” è “atto puro”, e
non può avere una Potenza, perché la Potenza è la capacità della materia di
ricevere una forma e di divenire un’altra cosa. Se a Dio manca qualcosa vuol
dire che non è atto puro e se non è atto puro è un essere in potenza e può
divenire qualche altra cosa. Ma se Dio può divenire qualcos’altro vuol dire che
l’immutabile non è immutabile e questo per Plotino è una contraddizione
inaccettabile.
l’Uno di
Plotino è principio primo e assoluto
Questo principio
primo o Archè da cui tutte le cose vengono (anche la materia) è l’unità
assoluta che è quindi fondamento di tutte le cose che vediamo. Escludiamo così
ogni forma di dualismo: Dio e Materia, Idee e Materia, Forma e Materia, ecc. Un bicchiere è l’unità bicchiere, se
cade e va in frantumi, non è più un’unità bicchiere, ma è un insieme di pezzi
di vetro.
L’Uno di Plotino è aldilà dell’essere
sensibile e
soprasensibile.
Stralciamo dall’opera stessa di Plotino, le Enneadi, questo
passo:<mi spiego: appunto perché
l’essenza dell’Uno è la generatrice di tutte le cose, essa non è nessuna di
quelle cose: essa non è pertanto “qualcosa”, né è qualità, né quantità, né
Spirito, né Anima; non è neppure “in movimento”, né, d’altronde, “in quiete”;
non è “in uno spazio”; non è “in un
tempo”. È invece l’ideale solitario, tutto chiuso in se stesso o, meglio,
l’informe che esiste prima di ogni ideale, prima del moto, prima della
quiete>. Enneadi, VI, 9, 6
l’Uno di
Plotino è Potenza infinita.
l’Uno di Plotino è il fondamento di
tutto, è l’Unità assoluta, l’Uno in sé, è Potenza infinita.
l’Uno di Plotino è
fonte da cui derivano i “molti”.
È Potenza infinita, non nel senso aristotelico, cioè che può
diventare qualcosa, ma nel senso di forza, di sovrabbondanza d’essere,
un’energia vitale che invade tutto, è la fonte da cui derivano i “molti”, è la
causa di tutto ciò che esiste, di lui si
può dire solo ciò che non è.
Da quest’ultima espressione di Plotino, diventata
famosissima, nascerà poi la così detta “Teologia
negativa”:
<dato che Dio è
“ineffabile”, il pensiero non può coglierne l’essenza. La nostra ragione non
può dire ciò che Dio è, ma al massimo stabilire ciò che Egli non è>.
L’Uno è la prima realtà, il fondamento dal quale verranno
tutte le cose. È questo un concetto che i greci chiamano ipòstasi
(dal greco hypostasis, «sostanza», da hypo, «sotto», e stasis,
«stare»: sostanza che sta sotto). Nella filosofia
neoplatonica e in Plotino, è la generazione
gerarchica delle diverse dimensioni della realtà appartenenti alla stessa sostanza divina, che le produce per una sorta di irradiazione,
processione ed emanazione.
Come avviene comunque che da quest’Uno, così “pago di se
stesso” e non bisognoso di altro, derivino poi i molti? Derivano i molti per
una sovrabbondanza d’essere, cioè l’Uno non può fare a meno di traboccare. Le
cose provengono da lui ed emanano da lui. Come una fonte di luce che emana
naturalmente la sua luce. Come un fuoco che non può fare a meno di emanare
calore. La luce o il fuoco mi illuminano o mi scaldano, non perché sono buoni o
lo vogliono, ma naturalmente, per necessità. L’Uno allo stesso modo dà vita
alle cose per sovrabbondanza d’essere, non può farne a meno, questo non
significa che voglia liberamente il mondo (non è il Dio creatore).
Come avviene tale derivazione? Plotino parla di Irradiazione, Processione, Emanazione.
Oltre alla metafora già annunciata della Luce e del Calore, Plotino porta anche
quella del profumo che emana da una rosa, senza togliere nulla alla rosa e
senza la volontà della rosa, perché è la sua natura. Oppure i cerchi
concentrici provocati da un sasso nello stagno, non possono fare a meno di
generare uno dopo l’altro questi cerchi.
Vi è inoltre una sorta di gerarchia, mano a mano che ci si
allontana dall’Uno, cioè esistono dei gradi di essere dal perfetto al sempre
meno perfetto.
Questo emanazionismo non è una forma di Dualismo come quella
di Platone e Aristotele e tantomeno di Buonismo, ma il mondo esiste per
l’effetto di una processione dall’Uno verso le cose. Per Platone e Aristotele
il mondo invece non derivava da Dio, ma esisteva di per sé, al massimo dava
forma alla materia.
L’Emanazionismo non è nemmeno il Creazionismo. Dio non vuole
fare le cose come un atto d’amore da lui pensato e voluto. Il mondo procede da
lui naturalmente, spontaneamente, necessariamente per una abbondanza d’essere. In
Platone e Aristotele Dio amava solo se stesso. L’Uno di Plotino non può amare
perché amare vorrebbe dire muoversi verso l’oggetto d’amore che se è tale vuol
dire che gli manca e questo non può essere. All’Uno non manca nulla. Infine il
mondo non è Dio (Panteismo), ma qualcosa che procede da Dio. Processione
necessaria che viene da Dio. Dio non si identifica con il mondo.
L'ipòstasi
(sostanza che sta sotto), nella filosofia
neoplatonica e in Plotino, è, come abbiamo visto, la generazione gerarchica
delle diverse dimensioni della realtà appartenenti alla stessa sostanza divina, che le produce per una
sorta di emanazione, altrimenti detta processione.
L’intelletto dà origine al mondo delle idee di Platone,
perché Plotino non ammette che esista la molteplicità. Le idee procedono da un
“unicum”, l’UNO, la stessa molteplicità ha senso solo se c’è una unità, quindi
anche le idee sono una emanazione o processione che proviene da una unità
originaria.
L’Anima somiglia al Demiurgo di Platone, cioè che vedendo con
l’intelletto il mondo delle idee, poi si perde in un grado d’essere sempre più
basso.
Esiste poi la Materia, ma che non è una Ipòstasi, cioè un
fondamento o una base che sta sotto. La Materia é paragonabile alla penombra o
ultima propaggine della luce e del calore emesso da una candela, cioè al limite
dell’effetto della luce e del calore, quasi al punto di non esistenza. La
Materia è l’ultima propaggine di questa emanazione d’essere rappresentata dalla
candela accesa. È negatività assoluta è quasi un non essere.
Questo è il punto di scontro di Plotino con il Cristianesimo
che invece non solo vede la materia come opera creativa di Dio, ma parla
addirittura di resurrezione dei corpi e di nuovi celi e nuova terra cancellando
ogni aspetto negativo della materia e del corpo.
Questo spiega anche
il rifiuto dei Greci ad accettare il discorso di san Paolo ad Atene sul Dio
sconosciuto. Rifiuto, non ad accettare una nuova religione, ma ad accettare la
resurrezione della carne, cosa che aveva provocato sarcasmo e ilarità, e non
reazioni violente, tanto era per loro impensabile che ciò potesse avvenire. La
materia per i Greci era sempre stata considerata qualcosa di negativo e di
impedimento all’intelletto, all’anima, alle virtù, qualcosa di cui liberarsi o
di tenere a bada.
Altro punto dolente nei confronti del
cristianesimo è che non si poteva ammettere che
nel dogma trinitario Padre e Figlio e Spirito Santo avessero pari dignità e
potenza, cioè che il Figlio, in particolare, fosse consostanziale al Padre.
Questo cozzava con il concetto di Subordinazione che non ammetteva
assolutamente una cosa del genere. Questo fu la causa di diverse eresie in seno
allo stesso cristianesimo.
La filosofia della
processione ci dice che le cose provengono necessariamente dall’UNO, e che
l’INTELLETTO viene dopo e quindi è meno dell’UNO, così l’ANIMA, procede dall’intelletto
ed è meno dell’intelletto e cos’ via. Anche un Dio che manda suo Figlio a
salvarci e poi alla fine dei tempi ci fa risorgere anima e corpo va contro il
circolo metafisico che vuole che tutto parta dall’UNO e poi necessariamente
torni all’UNO. Cioè per necessità, per sua natura, non per la volontà di
alcuno.
l’Apocatastasi di
Origène è la dottrina che afferma che tutti si salvano e quindi tutti tornano
prima o poi a Dio dal quale sono partiti. Questa dottrina, che richiama il circolo
metafisico, è incompatibile con la dottrina cattolica. l’Apocatastasi riappare
più volte nella nostra storia ed è a tutt’oggi accettata anche da qualche
cristiano superficiale o poco preparato.
Vi sono però, altri concetti o ragionamenti di Plotino che invece
verranno abbondantemente utilizzati dai padri della Chiesa per farci capire e
apprezzare molti passi della dottrina cattolica.
Nessuna fonte
attesta il comportamento tenuto da Ipazia durante queste drammatiche vicende,
né gli eventuali rapporti intercorsi tra lei e il vescovo Teofilo che
precedette il vescovo Cirillo. Sappiamo che il risalto ottenuto nella città di
Alessandria dalla personalità di Ipàzia è immediatamente successivo a quei
fatti e coincide altresì con l’affermazione, prodottasi nell’Impero orientale,
del movimento politico e culturale degli elleni, sostenitori della tradizionale
cultura greca indipendentemente dalle singole adesioni a una particolare
religione.
La loro ascesa subì un arresto con l’avvento al potere dell’Augusta Pulcheria, (Costantinopoli, 399 – 453), nel 414 che fu imperatrice
dell'impero romano d'Oriente, come reggente per il fratello minore,
l'imperatore Teodosio II.
È venerata come santa dalla Chiesa cattolica e da quella ortodossa). Il movimento degli elleni ebbe alterne fortune, nei decenni
successivi, fino al declino avvenuto a partire dalla seconda metà del V secolo.
Il prestigio conquistato da Ipàzia ad Alessandria ha una
natura eminentemente culturale, ma quella sua stessa eminente cultura è la
condizione dell'acquisizione, da parte di Ipàzia, di un potere che non è più
soltanto culturale: è anche politico. Scrive infatti lo storico cristiano
ortodosso Socrate Scolastico: « Per
la magnifica libertà di parola e di azione che le veniva dalla sua cultura,
accedeva in modo assennato anche al cospetto dei capi della città e non era
motivo di vergogna per lei lo stare in mezzo agli uomini: infatti, a causa della
sua straordinaria saggezza, tutti la rispettavano profondamente e provavano
verso di lei un timore reverenziale ».
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Quasi un secolo dopo, anche il filosofo Damascio riprende le
sue considerazioni: « era pronta e dialettica nei discorsi,
accorta e politica nelle azioni, il resto della città a buon diritto la amava
e la ossequiava grandemente, e i capi, ogni volta che si prendevano carico
delle questioni pubbliche, erano soliti recarsi prima da lei, come continuava
ad avvenire anche ad Atene. Infatti, se lo stato reale della filosofia era in
completa rovina, invece il suo nome sembrava ancora essere magnifico e degno
di ammirazione per coloro che amministravano gli affari più importanti del
governo »
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Alla morte del
Vescovo Teofilo nel 412 salì sul trono episcopale di Alessandria Cirillo: questi «si accinse a rendere
l’episcopato ancora più simile a un principato di quanto non fosse stato al
tempo di Teofilo», nel senso che con Cirillo «la carica episcopale di Alessandria prese a dominare la cosa pubblica
oltre il limite consentito all’ordine episcopale». In tal modo, tra il
prefetto di Alessandria Oreste, che difendeva le proprie
prerogative, e il vescovo Cirillo, che intendeva assumersi poteri che non gli
spettavano, nacque un conflitto politico, anche se «Cirillo e i suoi sostenitori tentarono di occultarne la vera natura e
di porre la questione nei termini di una lotta religiosa riproponendo lo
spettro del conflitto tra paganesimo e cristianesimo».
Nel 414, durante
un'assemblea popolare, alcuni ebrei denunciarono al prefetto Oreste, quale
seminatore di discordie, il maestro Ierace, un sostenitore del vescovo Cirillo,
«il più attivo nel suscitare gli applausi
nelle adunanze in cui il vescovo insegnava». Ierace fu arrestato e
torturato, al che Cirillo reagì minacciando i capi della comunità ebraica, e
gli ebrei reagirono a loro volta massacrando un certo numero di cristiani.
Iniziò
così una tristissima situazione conflittuale con torti e ragioni da ambo le
parti, usati da ciascun gruppo per denigrare e accusare gli altri. Certamente
diversi cristiani non si comportarono da cristiani, inoltre la preoccupazione
di mantenere il potere della Chiesa appena conquistato, contro il potere
del prefetto che rappresentava lo Stato
ancora impregnato di paganesimo, fece precipitare le cose.
In questo clima maturò l'omicidio di Ipàzia, poiché,
riferisce lo storico della Chiesa Socrate Scolastico: «Ipàzia s'incontrava alquanto di frequente con Oreste, l'invidia mise in
giro una calunnia su di lei presso il popolo della Chiesa, e cioè che fosse lei
a non permettere che il prefetto Oreste si riconciliasse con il vescovo. Era il
mese di marzo del 415, e correva la quaresima quando un gruppo di cristiani
dall'animo surriscaldato, guidati da un predicatore di nome Pietro, la uccise
cancellando poi ogni traccia dell’uccisione e bruciandone il corpo. Questo
procurò non poco biasimo a Cirillo e alla Chiesa di Alessandria. Infatti
stragi, lotte e azioni simili a queste sono del tutto estranee a coloro che
meditano le parole di Cristo».
Il filosofo pagano Damascio si era recato ad Alessandria intorno al 485, quando ancora «vivo
e denso di affetto era il ricordo dell'antica maestra nella mente e nelle
parole degli alessandrini». Divenuto poi scolarca della scuola di
Atene, scrisse, cento anni dopo la morte di Ipàzia, la sua biografia. In essa
sostiene la diretta responsabilità di Cirillo nell'omicidio, più esplicitamente
di quanto non faccia Socrate Scolastico: accadde che il vescovo, vedendo la
gran quantità di persone che frequentava la casa di Ipàzia, «si rose a tal punto nell'anima che tramò la
sua uccisione». Anche Damascio rievoca la brutalità dell'omicidio: «una massa enorme di uomini brutali,
veramente malvagi [...] uccise la filosofa ».
Ancora una volta quando prevale la preoccupazione del
Potere, l’uomo si allontana da Dio e tende a sopraffare o utilizzare il suo
prossimo. Questo caso, come tutti quelli in cui un cristiano non si comporta da
cristiano, viene utilizzato per dimostrare che il cristianesimo è contro
l’uomo, contro la sua libertà, contro il progresso e causa di guerre di
religione per cui agisce bene colui che ne sta lontano, cioè l’uomo secolarizzato
(esattamente il contrario di quello che invece questi casi dimostrano: fuori
dalla legge di Dio c’è la sopraffazione, il dolore e l’ingiustizia).
Mettiamo in luce le
grandezze del pensiero greco.
Prima grandezza. L’essersi posti il problema
dell’Archè, cioè del Principio. È la prima volta che in quel luogo e in quel
tempo, nella storia fino allora dell’umanità, gli uomini alzano la testa dalle
loro occupazioni quotidiane e si pongono il problema del Principio di tutte le
cose: da dove viene il mondo, da dove vengono le cose, da dove viene l’Uomo.
Ancora meglio, da quando il mondo, le cose e l’Uomo acquistano un senso,
acquistano un significato? Questa ricerca di un
principio, questa ricerca di un significato è l’origine alla Filosofia.
Seconda grandezza. Le grandi conquiste venute dall’osservazione della realtà,
cioè dall’inchiesta rigorosamente razionale della realtà, al tentativo quindi
di avere una risposta profonda e vera alle tre grandi domande: chi è Dio, chi è l’Uomo, cos’è il mondo.
Questo è il grande pregio del Genio dei Greci che a distanza
di più di 2.000 anni ci fa ancora discutere e ci sollecita il pensiero, proprio
per la profondità e rigorosità dei loro ragionamenti.
D’altra parte in questo percorso ci siamo trascinati il
“tormentone” fra l’Essere e il Divenire, ovvero fra l’Unità e la Molteplicità. I
Greci sono partiti dal cerchio, cioè dal principio da cui tutto deriva, al
principio dove tutto si conclude. Sono passati fra varie spaccature di questo
cerchio, per poi con Plotino recuperarlo e rimetterlo in piedi.
In questa raffigurazione però la nostra vita non si sblocca.
La nostra vita personale, la nostra vita nel mondo, il nostro destino non esce
da questa circolarità. È questo il punto debole della filosofia greca. Per
questo il pensiero di Plotino si trova necessariamente in contrapposizione al
pensiero cristiano che già si sta diffondendo in tutto l’occidente. Plotino
comunque riassume molto bene tutto il pensiero antico che è anche presente
nella saggezza semitica e che ben si sposa con la saggezza dei greci, cioè l’idea
che tutte le cose nascono, muoiono e poi ritornano.
I Semiti sono i
popoli discendenti da Sem, figlio di Noè. Gli ebrei sono uno di questi in mezzo
a tanti altri. (Genesi X-XI). Sempre dall'Antico Testamento, cioè dai Libri Poetici e Sapienziali “Qoèlet” troviamo il riferimento al circolo
metafisico che non cambia mai:
Parole di Qoèlet, figlio di Davide, re di Gerusalemme.
2Vanità
delle vanità, dice Qoèlet,
vanità delle vanità, tutto è vanità.
3Quale utilità ricava l'uomo da tutto l'affanno
per cui fatica sotto il sole?
4Una generazione va, una generazione viene
ma la terra resta sempre la stessa.
5Il sole sorge e il sole tramonta,
si affretta verso il luogo da dove risorgerà.
6Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a
tramontana;
gira e rigira
e sopra i suoi giri il vento ritorna.
7Tutti i fiumi vanno al mare,
eppure il mare non è mai pieno:
raggiunta la loro mèta,
i fiumi riprendono la loro marcia.
8Tutte le cose sono in travaglio
e nessuno potrebbe spiegarne il motivo.
Non si sazia l'occhio di guardare
né mai l'orecchio è sazio di udire.
9Ciò che è stato sarà
e ciò che si è fatto si rifarà;
non c'è niente di nuovo sotto il sole.
10C'è forse qualcosa di cui si possa dire:
"Guarda, questa è una novità"?
Proprio questa è già stata nei secoli
che ci hanno preceduto.
11Non resta più ricordo degli antichi,
ma neppure di coloro che saranno
si conserverà memoria
presso coloro che verranno in seguito.
Dalla saggezza biblica ricaviamo la
famosa affermazione di Qoèlet: “non c'è niente di nuovo sotto il sole”, che conferma il cerchio di Plotino. Ma ancora il suo
seguito: C'è forse qualcosa
di cui si possa dire: «Guarda, questa è una novità»? La circolarità di Plotino, così ben congegnata
e condivisa anche dai popoli antichi va ora a infrangersi e a frantumarsi
nell’impatto con il Cristianesimo. C'è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questa è una
novità»? Si ora c’è, ed è la novità
cristiana.